«Nel 2012, e negli anni subito successivi, c’è stato il picco di Londra città aperta. Dopo Brexit è cambiato molto, ma resta ancora uno dei centri mondiali per fare Venture Capital. Purtroppo rispetto al capitale umano le cose non sono più come una volta». Classe 1992, Andrea Gurnari è uno dei Partner di 2100 Ventures, fondo lanciato con l’aiuto dell’imprenditore Alessandro Benetton che ha l’obiettivo di investire in startup pre-seed e seed a livello europeo, tenendo d’occhio soprattutto founder italiani all’estero. Per la rubrica “Italiani dell’altro mondo”, abbiamo raccontato la sua storia, cercando di leggere l’evoluzione dell’ecosistema nazionale con la lente di un investitore che vive da molti anni a Londra.
Il primo contatto con le startup
Figlio di commercianti e imprenditori locali, Andrea Gurnari è nato e cresciuto a Sanremo. A 18 anni ha iniziato gli studi all’Università Bocconi di Milano. «Avevo fatto il classico, un profilo standard diciamo. Ma mi piaceva anche la parte finanziaria». Come spesso capita a quell’età si prendono decisioni che influenzano più o meno il percorso di vita. «Ero stato preso a Pollenzo nella facoltà di scienze gastronomiche. Mi interessava molto anche quel mondo, ma alla fine l’esperienza imprenditoriale famigliare mi ha portato verso il business».
Prima di terminare la triennale Andrea Gurnari ha incontrato un team di giovani del Politecnico di Torino, impegnati a realizzare una batteria portatile per lo smartphone. Oggi sono prodotti molto diffusi, ma più di dieci anni fa l’ondata dei primi iPhone e il tema dell’autonomia dei dispositivi rendevano necessario tenere nello zaino o in borsa accessori del genere. «D’estate studiavo alla London School of Economics ed ero attivo nell’ecosistema startup locale e così ho consigliato loro di costruire il business assieme in Inghilterra. Era il 2012, c’erano le Olimpiadi. Abbiamo preso un grant dal governo inglese che favoriva l’arrivo di founder intenzionati a incorporare l’azienda in UK». Il progetto di SaveSquared non è andato a buon fine. «La difficoltà più grande era di carattere tecnologico. Abbiamo interrotto lo sviluppo. Un’esperienza comunque utilissima, perché ho visto quanto difficile sia fare il passo da 0 a 1».
Dopo il battesimo nel comparto innovazione, in anni per di più pionieristici per l’ecosistema italiano, Andrea Gurnari ha scelto di rimanere in Inghilterra, dove ha lavorato per alcune delle più importanti aziende finanziarie globali, come BlackRock e Goldman Sachs. «Io però avevo già capito durante l’esperienza in SaveSquared che avrei voluto fare Venture Capital. Quando facevamo fundraising mi piaceva la visione ampia che chi stava dall’altra parte del tavolo aveva dell’ecosistema. Il founder vive in un mondo verticale, mentre il VC deve avere un approccio orizzontale e multimodale nella capacità di valutazione».
Quando Londra era altro
E infatti alla fine è stato risucchiato dal mondo startup. A seguito dell’esperienza in Goldman Sachs, Andrea Gurnari ha gestito il team di prodotto per la fintech, Nivaura, che dopo aver raccolto più di 20 milioni di dollari è stata acquisita da un player fintech globale. A quel punto ha frequentato il Master in Business Administration alla London Business School, come ultimo passo prima di entrare nel mondo del Venture Capital da investitore. Ha cominciato in Connect Ventures, e poi è stato il primo Italiano a lavorare ad Atomico, uno dei fondi più famosi in Europa, lanciato dal fondatore di Skype Niklas Zennstrom. Proprio mentre era ad Atomico ha iniziato a lavorare al progetto di 2100 Ventures.
«Ci siamo dati due condizioni per creare 2100: comporre un team di italiani che avesse passato la maggior parte della carriera all’estero, e far sì che fosse un fondo europeo, di sostegno alle aziende anche sulla parte di internazionalizzazione. Investiamo in founder con mentalità europea, siano essi italiani, in Italia e all’estero. La strategia del fondo riflette perfettamente il nostro background internazionale».
Parliamo dunque di Londra, una città che è cambiata nell’ultimo decennio, pur mantenendo una sua innegabile centralità per il mercato dei capitali nel Vecchio continente. «L’entusiasmo di un tempo è scemato. Certo, è ancora il posto ideale se vuoi lanciare una fintech. Il modo di creare impresa a livello anglosassone nasce, o meglio, nasceva tutto dalle opportunità: se hai un’idea e un ecosistema a supporto potevi svilupparla».
Consigli di un investitore per chi fa startup
Andrea Gurnari ha parlato di decentralizzazione del talento. «Come investitori europei oggi viaggiamo molto più di un tempo in hub e centri periferici. Rispetto ad altre capitali dell’innovazione direi che Parigi è il place to be per quanto riguarda progetti di intelligenza artificiale. Anche Berlino e Lisbona hanno grossi punti di forza, specialmente grazie al pool di talento, qualità e costo della vita». E l’Italia? «Vediamo founder sempre più preparati. L’ecosistema arriverà al livello della Francia, ma sarà sempre un rincorrere fino a quando non ci toglieremo di dosso la mentalità campanilista. Se guardiamo Oltralpe il sistema è centralizzato, guidato dal governo continuativamente e con stabilità. Il problema dell’Italia è che spesso vuole imitare certi modelli, invece che emularli».
Da dove partire dunque? «Affinché l’Italia sia in grado di costruire unicorni a un ritmo europeo, e in industrie mainstream, come software, i presupposti culturali devono cambiare. Con questo intendo una maggior capacità di sperimentare dentro un contesto sociale adatto, che accolga il fallimento come opzione, una maggiore “cross-pollination” con altri ecosistemi, un’esaltazione di modelli imprenditoriali virtuosi. Serve iniziare a giocare con l’incredibile talento che già c’è. Ci sono enormi potenzialità non sfruttate su deeptech e ricerca».
In un periodo di assestamento e normalizzazione, dopo un 2023 complesso a livello globale, le prospettive di crescita necessitano dell’intervento di VC e investitori esteri, così come di un maggior protagonismo degli istituzionali, come suggerito di recente dal Governato della Banca d’Italia Fabio Panetta. Secondo Andrea Gurnari la risposta però non è sempre all’interno dei confini patrii. «Mi sono trovato, anche a malincuore, a suggerire ad alcuni founder di lasciare l’Italia, perché il loro progetto ne sarebbe uscito altrimenti limitato. Nel bene o nel male, siamo in un’industria che compete per connettere capitale a talento. I founder devono scegliere il campo di gioco migliore per costruire successo. Non bisogna dimenticarsi che la nostra generazione, la stessa dei founder, è cresciuta con i “Giochi Senza Frontiere”. C’è sempre l’orgoglio di essere Italiani, ma si compete a livello almeno europeo».