Internet of things, Big Data e blockchain, ma anche diritto sul web e proprietà intellettuale, i temi sul tavolo dell’appuntamento organizzato dalla startup Kopjra
“Civilista o penalista?”. È questa la domanda che di solito ti fanno dopo aver scoperto che sei avvocato. La stessa domanda che mi ponevano quando – ormai oltre quindici anni fa – ho iniziato ad occuparmi di diritto dell’informatica. Segno che, nell’immaginario collettivo, le categorie del diritto sono le stesse di trent’anni fa, come se il mondo del diritto avesse potuto rimanere indifferente alla rivoluzione che le tecnologie hanno rappresentato per ogni settore della società.
E quando gli rispondi che tu e il tuo studio vi occupate di “diritto delle tecnologie”, anche nel 2016, è ancora frequente lo stupore del tuo interlocutore (e non fa grande differenza che sia un taxista o una grande azienda). Segno che le implicazioni giuridiche legate all’uso dell’informatica e del web (che tutti ormai fanno) siano ancora sottovalutate, a tal punto che si rimane stupiti quando si scopre che esistono professionisti e studi specializzati che si occupano solo di questo.
Avvocati e Studi legali che ogni tanto si incontrano per fare il punto sulle questioni più complesse. Come a Bologna, in occasione del Legal Tech Forum 2016, la manifestazione organizzata dalla startup Kopjra per discutere dei temi caldi legati all’utilizzo delle tecnologie. Di problemi nuovi (come quelli legati a Internet of things, Big Data e blockchain) e di questioni dibattute da tempo (come la tutela del diritto d’autore e della proprietà intellettuale sul web o l’utilizzo dei social network).
Nell’aula Giorgio Prodi dell’Università di Bologna, gli interventi dei relatori hanno raccontato di temi nuovi e in divenire. Sono stati un’importante occasione di confronto in un settore in cui – ormai lo abbiamo imparato – non esiste un “orientamento consolidato della giurisprudenza” (in molte di queste materie, infatti, non ci sono ancora sentenze dei giudici italiani) e libri e manuali corrono il rischio di essere obsoleti già al momento della loro pubblicazione. Il tutto con il punto di vista dell’avvocato, di chi – cioè – è chiamato a dare risposte concrete ad aziende tradizionali, startup e amministrazioni che utilizzano le tecnologie per le proprie attività e il proprio business.
Io, ad esempio, ho provato a parlare del fatto che – dopo anni di discussioni e leggi sugli open data – le norme italiane non siano ancora sufficienti ad assicurare che il riutilizzo dei dati delle amministrazioni possa aiutare le imprese a fornire servizi innovativi.
Già, le leggi. Un classico dei convegni in cui si parla di diritto delle tecnologie è constatare come il legislatore italiano faccia fatica a scrivere norme adeguate e tempestive (si pensi, ad esempio, a tutte le questioni giuridiche legate alla sharing economy che solo recentemente il Parlamento ha iniziato a discutere e che non sappiamo quando troveranno effettiva regolamentazione).
Non se ne parla molto, ma la capacità di un Paese di innovare e la modernità di un ordinamento giuridico si misura anche dalla velocità con cui riesce a dotarsi di norme agili e chiare, in grado di dare certezza a diritti umani fondamentali (come quelli della privacy e della libertà di manifestazione del pensiero) e quelli delle imprese (come la libertà di iniziativa economica privata).
Anche perché in assenza di norme evolute, il rischio è quello di incertezze e contenziosi che disincentivano iniziative imprenditoriali oppure disincentivano gli investimenti nel nostro Paese, così come hanno ribadito più volte i relatori del Legal Tech Forum 2016.
Avvocati per i quali, ormai da tempo, le tecnologie non rappresentano solo un ambito di attività professionale, ma anche strumenti di lavoro.
Siti web, social network e strumenti per il processo telematico sono già una realtà quotidiana ma si tratta solo della punta dell’iceberg. È probabile, ad esempio, tra dieci anni i contratti saranno scritti da “intelligenze artificiali”.
Questo comporterà lo “sterminio” della gran parte degli avvocati?
Lo vedremo, ma se c’è una cosa certa è che quando smetterò di fare questa professione non somiglierà molto a quella che era quando ho iniziato la carriera forense.
E, chissà, magari non mi chiederanno più “Civilista o penalista?”