L’open innovation fa benissimo alle banche e agli istituti di credito, che grazie alle startup migliorano la user-experience dei clienti. Una breve analisi di cosa sta cambiando in Italia e fuori
Le banche sono sempre state avanti con l’innovazione tecnologica. Innovazione che però ha proteso, almeno fino a un decennio fa, più verso l’infrastruttura delle banche stesse che verso il front-end, ovvero i clienti. Cioè, è sbagliato dire che le banche sono rimaste vecchie e non hanno saputo innovarsi, ma fino a poco tempo fa era piuttosto raro che i clienti potessero in qualche modo “percepire” queste innovazioni nelle loro interazioni quotidiane con le banche.
La nascita del Fintech
Non è un caso che a ridisegnare prodotti e servizi bancari ci abbiano pensato le startup, alcune delle quali sono cresciute al punto da sottrarre importanti fette di mercato a banche e istituti di credito. Basti pensare a PayPal, ad esempio, oppure TransferWise, o, restando in Italia, Satispay. Non sono banche ma operatori, nuovi operatori del mercato dei pagamenti. Che a loro volta vanno a comporrre un mondo che fino a pochi anni fa non aveva neanche un nome e che oggi conosciamo come Fintech, l’unione tra finance e technology. Un mondo popolato da startup ed ex-startup che non occupa ancora fette di mercato così grandi da insidiare le banche, ma che comunque ne sta aggredendo i principali asset: pagamenti, credito e investimenti.
Così le banche iniziano ad aprirsi
Anche per questo le banche innovano, rapidamente. E cambiano prodotti e strategie. Perché? Perché è un settore altamente competitivo, e anche un minimo cambiamento che aiuti a differenziare una banca da un’altra può fare la differenza. Molte di queste, anche come risultato di entrambe le forze interne ed esterne che stanno ridisegnando il mercato dei servizi finanziari con una velocità mai vista prima, iniziano ad aprirsi.
La rapidissima crescita del fintech, infatti, ha portato come effetto collaterale la nascita di molte camere di compensazione tra vecchio e nuovo, analogico e digitale, corporate e startup. Le startup hanno dalla loro la distruzione creativa, le banche capitali che possono far crescere e/o comprare tutto. E trarne esse stesse tutti i vantaggi del caso. Perché con l‘open innovation possono acquisire contemporaneamente know-how e disruption, creare valore aggiunto per gli utenti e, soprattutto, non perdere importanti fette di mercato.
L’open innovation consente di pensare fuori dagli schemi, confrontare idee, analizzare problemi, trovare soluzioni e trasformarle in realtà in pochissimo tempo.
L’open innovation delle banche in Italia
In Italia i principali gruppi bancari e finanziari si stanno muovendo da tempo per aprire il proprio R&D al mondo delle startup e dell’innovazione tecnologica. C’è Unicredit, che ogni anno promuove un percorso di accelerazione per startup, l’Unicredit Start Lab, e da poco ha annunciato la nascita di una nuova banca completamente mobile e digitale, BuddyBank.
Anche Intesa San Paolo porta avanti un programma di accelerazione e coaching end-to-end, lo Startup Initiative, mentre Banca Sella e CheBanca! hanno intrapreso la strada dell’innovazione verticale, interamente dedicato al fintech, la prima con il SellaLab, il co-working di Biella per startup fintech, la seconda con una call, gli Italian Fintech Awards, attivando al proprio interno un team speciale, voluto dal direttore generale Roberto Ferrari, dedicato agli Upstream projects. Una sorta di vivaio per startup e tecnologie disruptive, dove «ogni giorno definiamo e aggiorniamo i filoni strategici (i cosiddetti “upstream”, appunto), ricercando idee e soluzioni innovative per le esigenze di medio-lungo termine della banca, a partire dalle startup», racconta a SmartMoney il responsabile del dipartimento, Matteo Rossanigo.
Che succede fuori dall’Italia
Il modello tradizionale di servizi finanziari, con una banca o un istituto di credito che vende prodotti e servizi, è obsolescente rispetto ai cambiamenti dell’economia e della società, per questo le banche hanno la necessità di ristrutturarsi ed evolversi, soprattutto sui 2 livelli principali della piramide organizzativa:
1. Aprirsi con i clienti, in modo che possano co-creare nuovi prodotti e servizi in base al proprio stile di vita o situazione finanziaria;
2. Aprirsi al proprio interno, con sistemi e fornitori, in modo che possano trovare, integrare e mettere sul mercato prodotti e servizi innovativi, migliori e più veloci.
Deutsche Bank, ad esempio, ha attivato un piano di espansione tecnologico ben preciso e lo fa aprendo 3 hub di innovazione a Londra, Berlino in Silicon Valley. Il tutto stringendo partnerships strategiche con attori di primo piano quali Microsoft, HCL e la IBM. In questi hub di open innovation manager e startup, ricercatori e designers, banchieri e ingegneri, lavoreranno in team per per trovare soluzioni digitali da applicare ai servizi e prodotti della banca, sia in termini di offerta ai clienti che di ottimizzazione dei processi interni.
E originale è anche il format della Bank of America, che ha messo in piedi un programma di open innovation molto interessante, grazie al quale riesce a coinvolgere ogni anno quasi 300 aziende tecnologiche. Quasi tutte sono startup, che hanno 45 minuti di tempo per “pitchare” le loro idee e i loro prodotti di fronte ai manager e dipendenti della banca, i quali devono decidere subito dopo sull’opportunità o meno di avviare un’eventuale partnership.
E‘ presto per tracciare bilanci. Ma sia in termini globali che locali non possiamo non constatare un effetto incontestabile della digital disruption sul settore bancario: oggi, se pensiamo all’internet banking e alla user experience, le banche che fanno open innovation sono più efficaci, flessibili, complete. E fanno a gara per esserlo ogni giorno di più.
Aldo V. Pecora
@aldopecora