Mancanza di strategia strutturale e di visione. Così l’Italia degli anni ‘90 ha vissuto interventi parziali poco incisivi. L’ex banchiere Pietro Modiano e l’ex commissario Consob Marco Onado dedicano ai lettori di StartupItalia un estratto del loro libro “Illusioni perdute”, edito dal Mulino. Un viaggio per capire la mancata svolta positiva dell’economia
Le “Illusioni Perdute” del titolo sono quelle dei due autori, Pietro Modiano, ex banchiere, e Marco Onado, professore alla Bocconi, ex commissario Consob, editorialista autorevole. Illusioni che hanno segnato una parte della loro vita professionale, a partire da quando, nel biennio cruciale 1992-93, sembrava possibile – con le privatizzazioni – una svolta positiva dell’economia e della società italiana. Le privatizzazioni sono al centro del libro Illusioni perdute. Banche, imprese, classe dirigente in Italia dopo le privatizzazioni, il Mulino, 2023, che ne ricostruisce gli antecedenti e le conseguenze assumendo come chiave interpretativa l’analisi dei comportamenti delle classi dirigenti del nostro Paese. Segue un estratto che i due autori hanno voluto dedicare ai lettori di StartupItalia.
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L’analisi prende spunto da una riflessione di Raffaele Mattioli: «Tutto il periodo dall’Unità a questo secondo dopoguerra può in realtà configurarsi come una serie di occasioni e di tentativi diretti a dare finalmente vita a una classe dirigente adeguata». Nel lungo flash back della prima parte del libro si ripercorrono molti degli episodi nei quali i protagonisti dell’impresa privata rinunciano a imboccare la via maestra dello sviluppo e degli investimenti, mentre politica ed economia si intrecciano dando luogo a comportamenti opachi e a volte apertamente illegali. Sono le vicende degli anni sessanta e settanta, che culminano da un lato nella “tentazione di Mefistofele” (così definiamo la propensione al debito pubblico e privato, che accomuna politica e imprese dopo la crisi petrolifera) e dall’altro negli “anni di piombo della finanza italiana”: scandalo Italcasse, caso Sindona, attacco giudiziario ai vertici della Banca d’Italia, caso Ambrosiano. A luglio 1979 Giorgio Ambrosoli paga con la vita il suo rigore. Le sentenze accertano che il mandante è Michele Sindona.
Gli anni ottanta sono anni di occasioni mancate. Dopo la marcia dei quarantamila gli investimenti della grande impresa segnano il passo, mentre crescono quelli nell’impresa media e piccola. Emergono quelli che vengono definiti “i nuovi condottieri “(De Benedetti, Gardini, Schimberni, Romiti), ma i tentativi di emancipare le grandi imprese dal mercato interno, provando a spingerne i confini al di là dell’Atlantico falliscono uno dopo l’altro. I governi di pentapartito hanno la responsabilità di un’azione insufficiente sul piano del contenimento del disavanzo pubblico, ma hanno soprattutto due altre colpe: la mala gestio dell’impresa pubblica, e – soprattutto – “la miopia nella gestione dei rapporti con l’Europa”. Non hanno capito come i vincoli europei e in particolare il divieto di aiuti di stato avrebbero reso necessario non solo il risanamento delle imprese pubbliche ma anche l’avvio tempestivo di un programma di privatizzazioni. Quanto al sistema bancario, era un sistema tutt’altro che dinamico, che meritava la feroce definizione di “foresta pietrificata”. Ma all’inerzia del mondo bancario negli anni Ottanta si contrappone un importante e progressivo cambiamento del quadro normativo. Il 1992 è l’anno del redde rationem: in pochi mesi emergono “tutti insieme gli elementi di fragilità che negli anni si erano accumulati per mancanza di politiche efficaci e lungimiranti.” Il fallimento dell’EFIM mette in discussione la solvibilità dell’IRI. La criminalità organizzata attacca lo Stato. Le inchieste giudiziarie rivelano l’esistenza di una rete corruttiva fra soggetti pubblici e privati “di una gravità che sgomenta”. Gli effetti della crisi del 1992 peseranno sulla gestione delle privatizzazioni, e saranno irrimediabili. Si impone un impegno gravoso, che si tradurrà nell’accordo Andreatta-Van Miert che obbliga l’Italia a ridurre drasticamente il debito dell’Iri. Un accordo indubbiamente severo, ma la testa nel cappio – diciamo – “l’avevamo infilata noi”. Come non bastasse, passata la fase dell’emergenza è cominciata quella dell’instabilità politica, con la successione di sette governi fra il 1993 e il 2000. Ne ha risentito il processo di costruzione delle regole che fu lento e disomogeneo. Viene data in fretta la parola ai mercati, non solo senza una regia ma anche senza un protagonista fondamentale. Manca infatti la grande impresa privata, o meglio il capitale espresso dal mondo delle imprese italiane, a partire dalle maggiori, che – in crisi finanziaria e strategica – ne approfittano per rifugiarsi in attività non-tradable, al riparo dalla concorrenza internazionale o comunque protette dalla politica. Ma il problema non riguardava solo la grande impresa storica. Anche la restante parte dell’imprenditoria privata avrebbe mostrato tutti i suoi limiti. La privatizzazione dell’apparato industriale italiano ha così avuto un esito paradossale: mentre la grande impresa privata a controllo nazionale è sostanzialmente sparita, oggi il vertice è costituito in gran parte da imprese rimaste a controllo pubblico come Eni, Enel e Leonardo. Sono state Credit e Comit ad avviare la stagione delle privatizzazioni, e il mondo bancario subisce da allora una trasformazione radicale. Le aggregazioni bancarie procedettero con rapidità. Alla fine si formarono due giganti bancari: Unicredit e Intesa SanPaolo. Nonostante le crisi e i dissesti di singole banche, il giudizio degli autori sul sistema bancario è positivo, certo più positivo di quello che riguarda il mondo delle imprese. Tuttavia gli autori sottolineano che non si è arrivati a costruire un vero campione nazionale né nel campo dei servizi finanziari alle imprese (l’investment banking) né nel campo del risparmio gestito. Sotto il primo profilo, la banca all’avanguardia in questo settore, la gloriosa Banca Commerciale Italiana è stata letteralmente cancellata. La Grande Crisi Finanziaria ha pesato per un intero decennio sulle banche italiane ma il costo per il contribuente è stato immensamente inferiore agli altri paesi europei. Alla fine del decennio l’entrata nell’euro sarà l’unico successo durevole di una linea di rigore nella gestione della cosa pubblica che rimase temporanea. Di sicuro, sul piano economico dopo le privatizzazioni non c’è stato lieto fine. Abbiamo perso il passo delle altre economie dell’Euro. La capacità competitiva del paese si è ridotta. La bassa crescita e la bassa produttività che caratterizzano l’Italia nel confronto con le altre economie avanzate sono – argomentano gli autori – l’effetto soprattutto di una distorsione della struttura dimensionale delle imprese. Il vuoto creato dal ridimensionamento della grande impresa non è stato riempito dalle imprese medie, ma dalle microimprese. Le medie imprese eccellenti hanno un peso modesto nella formazione del Pil. La micro impresa – quella con meno di 10 dipendenti – concentra invece un numero di operatori senza uguali nei paesi avanzati. In quest’area composita non sono poche le imprese che sopravvivono perché non pagano il lavoro e le tasse, con comportamenti border line dal punto di vista del rispetto delle regole. La precarietà del lavoro è diventata precarietà dell’economia, e della società. A questo punto, gli autori tirano le somme. La stagione delle grandi speranze è stata breve. I vecchi vizi hanno finito per prevalere. L’ottimismo della volontà animava coloro che negli anni Novanta credevano che le privatizzazioni avrebbero potuto essere il nostro Big Bang. Non è stato così: nuove regole sono state scritte, ma il loro enforcement è stato via via reso meno efficiente da autorità di controllo prive di effettivo potere di intervento; il protagonista principale dello scenario politico degli ultimi trent’anni è Berlusconi, un imprenditore che deve il suo successo iniziale alla protezione politica e al silenzio dei regolatori. Insomma, la politica ha le sue colpe, ma il mondo delle imprese, o almeno una sua parte, deve essere chiamato in correità.
Gli imprenditori non sono tutti uguali. A questo proposito gli autori ricordano un illuminante saggio di Baumol che distingue gli imprenditori in tre categorie: produttivi, non produttivi, distruttivi, superando lo schema schumpeteriano dell’imprenditore sempre innovatore e quindi fonte di progresso. La collocazione degli imprenditori fra le tre categorie dipende dagli incentivi che il sistema nel suo complesso riconosce. Quando prevalgono incentivi positivi, gli imprenditori fanno scelte produttive, come nel caso della Rivoluzione industriale inglese. Quando prevalgono incentivi opposti prevalgono scelte non produttive o addirittura distruttive. È uno schema che sembra adattarsi perfettamente al caso italiano, che ha oggettivamente creato un sistema di incentivi che ha premiato comportamenti non produttivi o addirittura distruttivi. Chi è il colpevole? Agatha Christie ci offre, dicono gli autori, un’ulteriore chiave di lettura. “Come nel magistrale Assassinio sull’Orient Express, non c’è un solo responsabile del declino della grande impresa italiana e dello spostamento verso attività non produttive o addirittura distruttive: tutti i passeggeri avevano un solido movente, tutti hanno avuto l’opportunità, ma nessuno saprà mai chi ha inferto la pugnalata mortale.Tutto ciò giustifica il titolo del libro: Illusioni perdute, come il romanzo di Honoré de Balzacambientato nella Francia di Luigi Filippo.Il pessimismo della ragione che domina questa scelta non esclude l’ottimismo della volontà che deve guardare al futuro e puntare al cambiamento. Il che richiede però un’approfondita analisi dei problemi attuali della società italiana e uno scatto morale collettivo. Come disse lo stesso Honoré de Balzac, «Il pensiero è per coloro che devono trovare la forza interiore dopo il tempo del disincanto».