Intervista all’ideatore del modello Open Innovation. Che vede nei prossimi anni un momento di svolta importante per l’Europa: il Vecchio Continente, dice, potrebbe guidare il pianeta intero verso la sostenibilità
Da poco confermato professore straordinario presso l’Università Luiss Guido Carli, titolare della Maire Tecnimont Chair, Henry Chesbrough non ha bisogno di presentazioni nel mondo delle startup: è colui che all’inizio del nuovo millennio per primo aveva introdotto il concetto di Open Innovation, aprendo una nuova stagione per la collaborazione tra grandi imprese e nuovi attori capaci di garantire un valore aggiunto in termini di innovazione. A questo modello, che nei primi 20 anni dalla sua definizione ha raccolto empiricamente notevoli conferme della sua validità, il professore statunitense ha dedicato una parte significativa della propria carriera: di recente è anche tornato con un lavoro specifico sull’argomento, affrontando nuovamente questi temi alla luce dei cambiamenti intervenuti nel tessuto industriale ed economico negli ultimi anni e corroborando le sue idee con esempi concreti di come il modello open sia stato applicato nella realtà.
Proprio in occasione della sua riconferma come professore straordinario nell’ateneo romano, StartupItalia ha potuto rivolgere a Henry Chesbrough alcune domande relative al presente e al futuro dell’Open Innovation. Il professor Chesbrough si professa ottimista anche sulle prospettive future del nostro ecosistema: soprattutto perché, dice, l’industria sembra oggi aver compreso e fatto proprio il modello di innovazione aperta da lui proposto. Ci sono investimenti che stanno arrivando anche grazie ai fondi europei, ci sono soprattutto alcune aziende italiane che sono già oggi perfetto modello di transizione verso la sostenibilità anche grazie all’open innovation. Una tempesta perfetta che potrebbe far compiere al nostro ecosistema un passo avanti importante verso il consolidamento definitivo.
L’intervista a Henry Chesbrough
StartupItalia: Professor Chesbrough, Lei per primo propose il paradigma “Open Innovation” nel 2003: come si è evoluto questo modello nel corso dei vent’anni dalla sua prima introduzione? E come pensa evolverà nei prossimi vent’anni?
Henry Chesbrough: Se oggi cerchiamo “Open Innovation” su Google, otteniamo oltre 600 milioni di pagine web. Si tratta di un aumento enorme rispetto al 2003, quando uscì per la prima volta il mio libro sull’Open Innovation. A quel tempo, compiendo la stessa ricerca, comparivano circa 200 risultati. Oggi su LinkedIn ci sono decine di migliaia di annunci nel settore “Open Innovation”, mentre nel 2003 non ce n’era quasi nessuno.
All’inizio, l’Open Innovation consisteva in un framework che faceva leva su attività interne di ricerca e sviluppo (R&D) introducendo conoscenza dall’esterno per accelerare e migliorare il business (ed il modello di business). Allo stesso tempo le attività di R&D interne inutilizzate venivano attivate ed esternalizzate per consentirne l’utilizzo a favore di altri business (e del loro modello di business). Tuttavia, dopo la crisi finanziaria del 2008-09, alcune organizzazioni hanno utilizzato il linguaggio dell’Open Innovation per ridurre o eliminare le R&D interne affidandosi invece all’outsourcing.
L’innovazione aperta non era intesa come una strategia per diminuire gli investimenti in innovazione, ma in alcuni casi questo è il modo in cui è stata utilizzata. Questo percorso può portare a un miglioramento nel breve periodo, ma è probabile che si traduca in un declino a lungo termine per l’organizzazione. Nel corso della pandemia, l’Open Innovation ha nuovamente accelerato, grazie alla sua capacità di ridurre il “time to market” e di condividere i costi dell’innovazione con partner e collaboratori.
Ora, permettetemi di definire l’”Open Innovation”, che si basa sull’idea fondamentale che la conoscenza utile sia ormai diffusa nella società. Nessuna organizzazione ha il monopolio sullo sviluppo di buone idee, e ogni organizzazione, non importa quanto sia efficace internamente, ha bisogno di impegnarsi in modo approfondito con conoscenze del proprio network e della comunità esterna. Un’organizzazione che pratica l’innovazione aperta utilizzerà idee e tecnologie esterne come pratica comune nella propria attività (“Outside-in Open Innovation”) e consentirà di esternalizzare idee e tecnologie interne inutilizzate per essere utilizzato da altri nelle rispettive attività (“Inside-out Open Innovation”).
L’Open Innovation e l’Italia
SI: Storicamente in Italia abbiamo dei problemi nello scambio tra la ricerca a livello accademico e il trasferimento tecnologico verso le aziende. È possibile superare questo imbuto, magari facendo riferimento a un modello di collaborazione diverso come quello statunitense?
HC: Riconosco il problema posto nella domanda, che non vale solo per l’Italia. In alcune delle principali università americane (Stanford, MIT, Berkeley, Carnegie Mellon) esiste un’orgogliosa tradizione di stretta collaborazione tra industria e mondo accademico. Ciò non è andato a scapito della qualità accademica, ma ha notevolmente aumentato l’impatto e la rilevanza della ricerca accademica in quelle istituzioni. Dal momento che l’Europa guida il mondo nella transizione verso l’energia green e rinnovabile, c’è l’opportunità di utilizzare la ricerca accademica come parte di questa transizione. I rapporti tradizionali tra Università e aziende in Europa devono sposare un approccio più cooperativo affinché ciò si realizzi.
SI: In Italia le PMI dominano l’economia. È ancora possibile generare innovazione tecnologica d’impatto anche a queste condizioni? Quali sono secondo Lei le principali differenze tra il nostro modello e quello della “Silicon Valley”?
HC: Le PMI sono piccole e dunque non detengono le risorse delle grandi aziende. Questo discorso vale anche per le startup, che sembrano però avere un accesso superiore al capitale di investimento per puntare a mercati e ad investimenti di scala maggiore, rispetto alla maggior parte delle piccole-medie imprese. Le startup e le loro fonti di finanziamento sono all’apice di sempre, e ciò si manifesta nelle collaborazioni attive con le grandi aziende. Queste ultime scopriranno che la maggior parte delle buone startup non hanno davvero bisogno dei loro soldi, ma di accedere alle capacità delle aziende e dei loro clienti. Le PMI, invece, lavorano con grandi imprese, solitamente come fornitori piuttosto che come collaboratori: questo riduce il valore aggiunto che una PMI può ottenere da questa relazione.
Quindi vedo le principali differenze tra startup e PMI in termini di aspirazioni (molte aziende della Silicon Valley aspirano alla leadership globale, mentre la maggior parte delle PMI italiane cerca di auto-sostenersi in un’economia locale o regionale) e di accesso a capitali di investimento per perseguire quelle aspirazioni.
SI: Quando pensiamo all’innovazione pensiamo sempre alla tecnologia e ai posti in cui la tecnologia fa i maggiori progressi (California, Cina, Taiwan, India, Corea ecc). In Italia abbiamo un’industria “vecchia scuola” ma, ancora una volta, ci sono le PMI che spesso fanno la differenza rispetto ai concorrenti internazionali: pensa che ci siano settori specifici che possono trarre vantaggio da questa diversa dimensione di impresa?
HC: Considero l’energia green come una grande opportunità per le aziende italiane, dalle startup alle PMI fino alle grandi imprese. I mercati europei, gli investitori e i clienti sono tutti favorevoli a un passaggio verso un’innovazione più rinnovabile e sostenibile. In altre regioni, come negli Stati Uniti, in Cina e persino in Africa, l’esempio delle aziende europee verrà probabilmente seguito. Avere successo in questo cambiamento richiederà nuovi modi di lavorare, un nuovo contratto sociale tra datori di lavoro e dipendenti e un ruolo diverso per i Governi per stimolare l’innovazione. L’Europa, in tutte queste aree, è avanti.
SI: Ci sono settori industriali in Italia in cui le piccole e grandi aziende sono già oggi un buon esempio di open Innovation?
HC: Nel processo di transizione aziendali verso businesses più green e sostenibili già menzionato, ho condotto recenti case study su alcune organizzazioni italiane, tra cui Maire Tecnimont, Enel ed Enel X. Questi rappresentano esempi di aziende italiane all’avanguardia nell’innovazione e nell’utilizzo di successo dell’Open Innovation, su cui hanno molto da insegnare al resto del mondo.
La prospettiva degli investimenti europei
SI: Nei prossimi anni, come ulteriore conseguenza della pandemia, l’Unione Europea investirà miliardi di euro in ogni Paese dell’Unione: l’Italia beneficerà da sola di oltre 230 miliardi di investimenti. Crede che questa sia un’importante opportunità da cogliere per estendere il modello di Open Innovation ad una più ampia gamma di aziende?
HC: Sì, questa è una grande opportunità per l’Italia. La dimensione del fondo è abbastanza ampia da permettere di superare la consueta inerzia che vanifica le buone intenzioni con cui molte iniziative vengono avviate. Con queste risorse e con il sostegno politico che il governo Draghi ha ottenuto, si può ottenere molto. In questo senso penso che l’Open Innovation giocherà un ruolo importante, e vorrei anche notare che le università italiane – in primis la Luiss – possono svolgere un ruolo di supporto positivo.
SI: È appena stato confermato Professore straordinario alla Luiss Guido Carli per il prossimo triennio: che tipo di esperienza intende condividere con i suoi studenti per formare una nuova generazione di innovatori?
HC: Sono professore alla Berkeley University in California, Stati Uniti, e all’Università Luiss Guido Carli a Roma, dove, dopo un periodo di 3 anni, sono stato rinnovato per un ulteriore triennio. Questi incarichi mi consentono di comprendere l’innovazione nell’Unione Europea e di confrontarla con quella negli Stati Uniti. Sebbene vi siano molte somiglianze, esistono anche importanti differenze nell’innovazione tra le due Regioni.
Nella UE, che è molto “collaborativa” sul tema, le relazioni tra aziende, istituzioni e Università sono più connesse di quanto non lo siano negli Stati Uniti, mentre le startup stanno diventando sempre più importanti in Europa, così come negli USA.
Nei prossimi tre anni, spero di condividere queste prospettive con i miei studenti della Luiss a livello Triennale, Master, MBA e PhD. Spero anche di aumentare il mio engagement con le aziende europee, in modo da poter imparare come tradurre al meglio le teorie dell’Open Innovation nella pratica nel prossimo decennio.