La lentezza è una virtù. All’indomani della giornata mondiale, ne abbiamo parlato con la psicoterapeuta Nicoletta Cinotti
Fino a qualche anno fa, uno dei concetti più usati per promuovere un prodotto era, a grandi linee: immagina quante più cose potresti fare. Suona strano, ripetuto oggi. Provate a pensarci: difficile vendere qualcosa con questo slogan nella società degli smarthpone e dell’attenzione parcellizzata.
Una giornata è fatta di ventiquattro ore. Tolto il sonno, ne restano sedici, che dividiamo tra lavoro, vita sociale, svaghi, corsi, miglioramento personale, amicizie. Non bastavano un tempo, figuriamoci adesso. E poi ci sono i contrattempi, gli imprevisti, che fanno saltare per aria il planning e spingono in alto l’ ansia. Assieme ai succhi gastrici.
Il pane in casa, le passeggiate, le lunghe serate sul divano. Il Covid ci aveva illuso: avremmo potuto cambiare, rallentando.
È durata poco. Il lavoro si è infilato tra le pareti domestiche, e non manca chi sostiene che il menage postpandemico sia addirittura peggiore: senza separazione fisica tra ambienti, tutto finisce in un enorme calderone, alla faccia della differenziata.
“Qualcuno si è accorto che vivere in una società della prestazione esaurisce le nostre forze e non dà i risultati sperati? Qualcuno si è accorto che viviamo nella società della stanchezza?” si domanda il filosofo coreano Byung-Chul Han. Gli fa eco Agatha Christie, forse l’autrice più venduta al mondo. “Non credo che la necessità sia la madre dell’invenzione – rispondeva in un ideale palleggio -. Secondo me, è molto più facile che questa nasca direttamente dall’inattività e, forse, anche dalla pigrizia“.
Alla lentezza Milan Kundera, noto per l’ “Insostenibile leggerezza dell’essere” e penna sopraffina, ha dedicato addirittura un libro.
All’indomani della giornata mondiale, che quest’anno si è “celebrata” il due maggio, ne abbiamo parlato con Nicoletta Cinotti, psicoterapeuta ed esperta di mindfulness, una lunga carriera a contatto con le aziende.
Cinotti, cominciamo definendo la mindfulness?
Certamente. Attenzione intenzionale nel presente, momento per momento, sospendendo il giudizio.
Pare una cosa complessa.
Il primo aspetto importante è l’intenzionalità: la risposta reattiva agli stimoli, quella che spesso forniamo, è molto veloce, ma essenzialmente difensiva. Il fatto è che rischiamo di attivarla anche quando è controproducente. C’è poi la sospensione del giudizio, che non significa astenersi dal giudicare – siamo umani ed è impossibile -: vuol dire raccogliere più informazioni e dal maggior numero di fonti possibile prima di fornire una valutazione, non accontentarsi dei pensieri. Quindi, per traslato, diventare consapevoli dei nostri giudizi automatici. Rompere il binomio che associa il piacevole al positivo e lo spiacevole al negativo, che spesso si rivela fallace.
Durante la pandemia, pareva fossimo entrati in una nuova fase di consapevolezza. Acqua passata?
Secondo me, nonostante tutto, abbiamo svoltato, perché sono aumentati di molto il lavoro da remoto e le dimissioni volontarie, non solo i licenziamenti. A cambiare è stato il rapporto con il lavoro, e mi pare si tratti di un effetto difficile da annullare. Saper mettere dei confini è il grande tema con cui si confronta chiunque, che si tratti di freelance o degli impiegati in un’azienda. Abbiamo davvero bisogno di imparare a metterli, questi paletti. Ho recentemente terminato un percorso con una multinazionale con sede a Bologna, la quale aveva chiesto ai dipendenti di lavorare anche il sabato per portare a termine un progetto complesso. Con questo intervento si voleva evitare che lo stress diventasse burnout: perché, se oltrepassiamo il limite, la qualità della nostra produttività diminuisce.
Sarebbe bello sapere dove metterlo.
Trovo sia la domanda più interessante: a fine giornata, a fine settimana, o in piccoli momenti di pausa durante il giorno, magari più rigeneranti del classico caffè? (ride, ndr) Se il limite lo poniamo solo alla fine, quando abbiamo finito di fare tutto, saremo sempre sottoposti a uno stress eccessivo… Un test che faccio spesso è: quando decidi che è arrivato il momento di andare a dormire? Quando è finito film, quando hai terminato quello che devi fare? In realtà, il momento giusto è, semplicemente, quando siamo stanchi.
Parliamo della lentezza. Lunedì si è celebrata, per così dire, la giornata mondiale.
Il punto è questo: se replichiamo automaticamente a uno stimolo, lo facciamo attivando le nostre difese, che forniscono risposte veloci, perché nascono per metterci in salvo. Rallentare, al contrario, ci permette di aumentare la consapevolezza, e decidere quando attaccare e quando, invece, è esagerato farlo. In più, ci permette di percepire emozioni cui, altrimenti, non avremmo accesso.
E come si coniuga questo con la vita aziendale e la richiesta della prestazione, a ogni costo?
Le aziende sono orientate in senso performativo. Ma cominciano a esserci esempi di realtà che si comportano diversamente. Google ha portato la mindfulness nella società da moltissimi anni con il programma Search inside yourself. Anche la Harvard Business School ha studiato la gentilezza. In generale, direi che la nostra convinzione che la felicità arrivi assieme al successo è falsa: è più facile avere successo se si è felici che non il contrario. Il segreto è saper apprezzare ciò che abbiamo, provare gratitudine, assaporare i bei momenti.
Spariamo a zero sul multitasking.
Possiamo avere presenza reale solo quando l’attenzione è posata su quello che facciamo: ecco perché il multitasking non funziona. Nel corso degli anni, lo span di attenzione medio si è abbassato a sei secondi: siamo come pesci rossi. Persino i codici numerici di sicurezza sono diventati di sei cifre perché ci si è accorti che non siamo in grado di ricordarne di più. Ed è solo uno dei tanti esempi che potremmo fare. Di certo, un’illusione è crollata: quella che la tecnologia ci avrebbe portato a una diminuzione delle ore di lavoro.
Persino Keynes, geniale economista, si era illuso al riguardo. Erano gli anni Quaranta del secolo scorso. Come è andata, lo sappiamo.
Conosco molte persone, che vivono da “nomadi digitali”, ormai lavorano solo da remoto e si ritrovano in comunità online dedicate per confrontarsi tra loro. Hanno compiuto questa scelta perché cercano flessibilità. Onestamente, non vedo questa grande fretta a tornare alle famose riunioni in cui si attraversa la città per vedersi mezz’ora. Sono nata in un piccolo paese della Toscana, che durante il lockdown ha raddoppiato il numero degli abitanti: niente più problemi di spostamento, anche i bambini vanno a scuola a piedi, e questo cambia la qualità della vita. Anche se può creare problemi di altro tipo, dal punto di vista organizzativo.
Priorità: come si capisce cosa è importante e cosa no?
Tutte le pratiche di consapevolezza hanno lo scopo di fornire una visione interiore. Siamo stati abituati a pensare che gli obiettivi validi siano solo quelli esterni: oggi cominciamo a credere che, se i nostri fini sono lontani da ciò che siamo davvero, non possiamo essere felici. Personalmente, dò moltissimo valore all’intenzionalità: se una persona vuole arrivare a cinquant’anni avendo messo da parte un bel capitale, c’è poco da fare…
Come è cambiato il mondo negli ultimi vent’anni?
Poche persone oggi considerano attraente la fatica fine a sé stessa: stiamo passando da una società votata all’impegno estremo a una in cui si pensa che creatività e intuito non sono opzionali, ma necessari. Dal futuro a tappe – studi, matrimonio, figli – stiamo navigando verso la cultura dell’incertezza, e saperla maneggiare è diventata una qualità.
È vero. Ma non si rischia un appiattimento sul presente?
Se ci facciamo rubare attenzione dal multitasking, dalla connettività, il rischio c’è. La risposta, ancora una volta, è la consapevolezza.
Lei ama la scrittura, la definisce quasi terapeutica. Sul suo sito ho trovato una citazione di Joan Didion, giornalista e autrice. “Scrivo per scoprire che cosa sto pensando, cosa sto cercando, cosa vedo e cosa significa, fino in fondo”.
La scrittura è magica per questo: non sai mai che cosa scriverai, anche se all’inizio ti sei dato un tema. Conosce il metodo della scrittura al risveglio?
No.
La mente originaria parla per metafore, è poetica, e soffre quando la costringiamo a entrare in una storia troppo ripetitiva. Per contattarla, abbiamo bisogno di tornare al flusso di coscienza: una delle vie è scrivere a mano dieci minuti tutte le mattine senza rileggere, qualunque cosa venga in mente. Suggerisco due libri: La via dell’artista di Julia Cameron e Writing in a natural way di Gabriel Rico.
Rallentare è un modo – controintuitivo – per andare più veloci.
Non più veloci, più fluidi. Ed è nel flusso che , alla fine, si incontra una velocità diversa.
Chiuderei con la psicoterapia. La cultura della competizione spesso genera mostri, malessere, nevrosi. Curarsi aiuta; ma c’è ancora uno stigma nei confronti di chi lo fa. Vogliamo sfatarlo?
La psicoterapia va intesa come esplorazione, tenendo presente che possiamo cominciarla e terminarla quando vogliamo. Molti non la intraprendono perché ritengono sia infinita. E, naturalmente, per la paura che hanno di sé stessi. Ma non è forse meglio gettare un po’ di luce nel buio?