Il libro “Diverso da chi – L’inclusione come strumento di marketing” (Egea Editore) di Anna Zinola ripercorre la storia del concetto di inclusione nel mondo della comunicazione attraverso numeri, storie e casi di cronaca
“Molti anni fa, quando mia figlia frequentava la scuola materna, riferendosi a un’amichetta, mi disse: ‘Stefania è marrone’. Senza riflettere, le risposi: ‘Sì, certo, ma tutti i bambini sono uguali. Ricordo il suo sguardo tra lo stupore e la stizza: ‘Ti ho detto che è marrone’. Con poche parole aveva sottolineato quanto ideologica, e in qualche misura prevenuta, fosse la mia posizione. Per lei il fatto che Stefania avesse la pelle marrone era un dato di fatto, che non aveva bisogno di alcuna didascalia, di alcuna ulteriore specificazione. Era come dire ‘Stefania ha un vestito rosso’. Che bisogno c’era di ribattere che tutti i vestiti sono uguali?”. Inizia con questo episodio il libro “Diverso da chi – L’inclusione come strumento di marketing” (Egea Editore) di Anna Zinola, docente di Metodi di ricerca all’Università Cattolica del Sacro Cuore e da oltre 25 anni consulente per le imprese. L’aneddoto risale ai primi anni Duemila e spiega perfettamente che cosa significhi inclusione. Allora questo termine non era ancora entrato nel linguaggio comune e ancor meno si parlava di marketing inclusivo. Oggi, invece, sono sempre più numerose le società che cercano di applicare questo principio ai diversi aspetti aziendali: dall’ampliamento dell’offerta di prodotti alla strategia di comunicazione, fino all’organigramma e all’organizzazione interna delle risorse umane. Il risultato? Pur partendo da una logica profit, si può contribuire a un cambiamento reale della società.
Professoressa Zinola, innanzitutto che differenza c’è tra inclusione e integrazione?
“Includere equivale a eliminare qualunque forma di discriminazione, sempre nel rispetto della diversità. E’ un processo che guarda a tutte le persone coinvolte e alle loro potenzialità, intervenendo prima sul contesto e poi sui soggetti. L’integrazione ha un approccio compensatorio: interviene prima sul singolo, poi sul contesto. Per spiegare in modo più concreto, possiamo immaginare un insieme di pallini di vari colori: se utilizziamo l’inclusione come principio guida, tutti i pallini vengono posti insieme, senza distinzioni o suddivisioni. Se invece facciamo ricorso all’integrazione, troviamo sì un insieme di pallini colorati, al cui interno però quelli che non sono di un certo colore vengono a loro volta raggruppati tra loro”.
In Italia da quando si pone attenzione al tema dell’inclusione?
“Se negli Stati Uniti il tema è molto radicato da tempo, per via del loro melting pot, in Italia se ne parla in maniera più esplicita da una decina d’anni. Come punto di riferimento possiamo prendere la famosa legge sulle quote rosa, che è stata molto criticata. Personalmente io sono favorevole, perché è ovvio che è un’imposizione, ma questa è una fase che verrà superata quando il cambiamento entrerà nel nostro approccio culturale. In Italia ce n’è ancora tanto bisogno, soprattutto nelle aziende medio-piccole”.
Marketing inclusivo: il caso più macroscopico è stato quello di Fenty Beauty: che cosa è cambiato?
“Fenty Beauty è il brand lanciato nel 2017 dalla popstar Rihanna, che ha permesso di trovare la giusta base trucco per donne di etnie diverse: con il suo fondotinta Pro Filt’R ha segnato l’inizio di un cambiamento radicale nel make-up. Se prima sul mercato esistevano in media tra 6 e 12 tonalità di fondotinta, lei lancia 50 sfumature, dalle pelli chiarissime a quelle scure. Non solo: la texture ultraleggera rende il prodotto utilizzabile da donne di ogni età. Rihanna ha grande risonanza e, soprattutto, è un personaggio credibile rispetto al messaggio che trasmette. Di fatto Fenty si è proposto come un brand autenticamente inclusivo”.
Da lì si parla anche di “Fenty effect”.
“Nel 2018 la rivista Time ha indicato Fenty Beauty come una delle aziende più geniali, rimarcando come in un solo anno abbia trasformato in maniera radicale l’industria del make-up. Moltissimi brand, a partire dal suo esempio, hanno deciso di ampliare la loro linea di cosmetici e i primi a muoversi in questa direzione sono stati quelli piccoli o di nicchia, perché sono più rapidi a intercettare i cambiamenti e adeguarsi. Come talvolta capita, l’azione di una singola azienda può creare un effetto valanga, spingendo tutto il comparto a muoversi nella direzione della diversity”.
Altri esempi di marketing inclusivo, dal beauty alla moda?
“Sempre nel settore beauty, c’è stata una lunga serie di campagne di Dove, che in tempi non sospetti ha cercato di scardinare la perfezione dei modelli di bellezza femminile più ammirati dalla società. Per quanto riguarda la moda, penso alle linee di abiti per persone con disabilità lanciate dalle multinazionali Tommy Hilfiger e Marks & Spencer, oppure a quelle ideate dall’impresa italiana Lydda Wear, passando per il progetto “Diritto all’eleganza” promosso dall’Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare, che ha coinvolto i ragazzi delle scuole superiori di secondo grado che si occupano di moda. C’è poi la campagna Gucci per i rossetti della linea Beauty, per cui sono stati scelti sorrisi imperfetti allo scopo di sottolineare che oggi essere belle significa essere autentiche, quindi mettere in evidenza, anziché nascondere, i propri segni distintivi. Importante, però, quando si parla di marketing inclusivo, è anche la naturalezza del messaggio: sempre Gucci ha scelto una modella con la sindrome di Down per reclamizzare il suo nuovo mascara: in questo caso non ho trovato un nesso logico, la decisione mi è sembrata un po’ forzata”.
Non a tutti però l’operazione inclusione è riuscita.
“La scelta dei tempi è un fattore chiave. Chi arriva troppo presto, quando lo spirito del tempo non è ancora pronto, rischia di non essere compreso, e quindi di non vendere. Prendiamo il caso di Manifesto, linea di make-up lanciata nei primi anni Duemila da Isabella Rossellini, insieme al colosso della cosmesi Coty. Era una gamma essenziale in termini di categorie, ovvero solo fondotinta, ombretto, fard e rossetto, ma estremamente articolata quanto a numero di referenze: le basi erano disponibili in 32 colori, veramente tanti per l’epoca, in modo che ogni donna potesse trovare quella adatta. Per le campagne pubblicitarie, oltre alla stessa Rossellini, vennero utilizzate donne reali, diverse per età, etnia e caratteristiche fisiche. “Ho sempre pensato che ci fosse qualcosa di offensivo nel prendere una bionda di vent’anni e portarla a rappresentare tutte le donne”, spiegò l’attrice, che definì la sua “una linea cosmetica con una segreta trama femminista”. Oltre al make-up fu proposto anche un profumo unisex, come si diceva in quegli anni, pensato per essere condiviso con un partner. Dopo pochi anni, però, Manifesto venne chiusa poiché le vendite erano molto al di sotto delle attese”.
Gli angeli di Victoria’s Secret hanno pagato caramente la loro mancanza di inclusività.
“La società a un certo punto ha cominciato a guardare al famoso show in modo diverso, sottolineando quanto il messaggio lanciato da quella sfilata di donne bellissime fosse lontano dalla realtà. Come potevano gli angeli essere un esempio di body positivity, inclusività e celebrazione della bellezza al di fuori di ogni canone? Le stesse modelle, peraltro, per restare nell’olimpo di Victoria’s Secret dovevano sottoporsi a diete rigide e allenamenti massacranti. Così, dopo 23 anni, l’evento è stato cancellato, perché è evidentemente uscito dai radar della contemporaneità. La decisione è stata così annunciata nell’autunno 2019 direttamente dai vertici della società: ‘Lo show è stato una parte molto importante nella costruzione del marchio e un notevole successo di marketing. Stiamo cercando di capire come far progredire il posizionamento del brand per parlare meglio ai nostri clienti’”.
Marketing inclusivo, ma anche strategie di comunicazione.
“Ci sono settori, come il food, in cui è più difficile fare innovazione di prodotto, ma si può giocare sulla comunicazione. Anche se, per esempio, Oreo ha lanciato la limited edition “Rainbow”, con la farcitura di biscotti nei diversi colori della bandiera Lgbt: un progetto nato in partnership con PFLAG National e a cavallo di una campagna ad hoc, #ProudParent, pensata per ‘creare un mondo più ricco d’amore’. A livello pubblicitario è importante valorizzare la diversità normalizzandola, considerandola parte integrante della vita di tutti i giorni, senza trasformarla in un fenomeno da baraccone. Va nella stessa direzione lo spot lanciato alcuni anni fa da Coca-Cola: protagonista il tipico ‘pool boy’, cioè il ragazzo che pulisce la piscina. Dalla finestra due fratelli, una ragazza e un ragazzo, lo ammirano mentre sta lavorando nel giardino di casa loro. Iniziano una lotta sfrenata per raggiungerlo e aiutarlo a dissetarsi con una Coca Cola. Ma quando arrivano scoprono che un altro membro della famiglia, la madre, li ha battuti sul tempo”.
Un altro esempio?
Sempre Coca Cola fece un’altra campagna, trasmessa durante il Ramadan e rivolta ai musulmani che stavano osservando la pratica islamica del digiuno. Nello spot si vede una giovane donna musulmana resistere alle ultime ore senza bere né mangiare prima del tramonto. Una passante in tuta da corsa la nota e le offre una Coca Cola. La giovane musulmana non accetta, ma l’altra ragazza capisce la situazione e decide di attendere con lei il tramonto per bere insieme. Sempre in tema di comunicazione, significativa è stata anche la campagna Ikea incentrata sull’immagine di due uomini che si danno la mano, mentre uno dei due tiene la classica sacca piena di prodotti, accompagnata da una frase chiara: ‘Siamo aperti a tutte le famiglie’. Oltre agli spot, comunque, ci sarebbe molto da fare anche a livello di retail: pensiamo all’altezza degli scaffali nei supermercati, che chi non è abbastanza alto non riesce a raggiungere. Oppure alle barriere architettoniche per entrare nei negozi o, ancora, ai prezzi scritti con caratteri troppo piccoli sulle etichette dei prodotti”.
A livello aziendale come si può intervenire?
“Le grandi aziende sono più avanti, perché hanno cominciato prima: l’introduzione del diversity manager è una presa d’atto che il tema dell’inclusione esiste. Questa figura professionale monitora la situazione interna per evitare discriminazioni e favorire l’inclusione, dalle nuove assunzioni alla creazione di team di lavoro. L’omogeneità tra le persone, tra l’altro, produce insight più banali: mescolare età, sesso, culture ed estrazioni sociali diverse favorisce la creatività. Le piccole e medie imprese si stanno muovendo ora, un po’ perché sono state più concentrate su aspetti tattici e immediati, un po’ perché hanno meno personale proveniente da altri Paesi. Si stanno rendendo conto che la sostenibilità ambientale e sociale è anche economicamente profittevole, anche se non nel breve periodo. Nel mondo del lavoro, come nella politica, il tema dell’inclusione, più che un fine in sé, è spesso considerato uno strumento per raggiungere obiettivi economici, finanziari e commerciali, ma può migliorare davvero la realtà che ci circonda”.