La multinazionale della trasformazione digitale racconta a StartupItalia come l’innovazione, ancora una volta, venga dalle piccole realtà. “E sarà nel segno della condivisione”
Operazioni che oggi richiedono miliardi di anni completate nel giro di poche ore: questo, in estrema sintesi, sono i computer quantistici. Sterminate le possibilità applicative, da modelli predittivi sempre più accurati in campo economico e climatico a quelle legate alla smart city, con un’integrazione migliore tra le varie componenti del tessuto urbano.
La corsa contro il tempo è cominciata: perché se una cosa è sicura, è che questi elaboratori cambieranno il mondo. Davanti a tutti ci sono Usa, Cina e Canada. L’Europa? Insegue, un passo indietro.
In un settore in cui tutte le grandi aziende tecnologiche, da Alphabet a Microsoft passando per Ibm, lavorano alle proprie soluzioni – con modalità e prospettive diverse – molto spesso le idee più innovative vengono ancora dalle startup. Perché la libertà e la creatività che si respirano nelle piccole realtà restano un frutto proibito per i mastodonti della tecnologia. E possono diventare molto, molto redditizie.
Ne abbiamo parlato con Giuseppe Di Franco, ad di Atos Italia. La multinazionale francese – ma lui sottolinea “europea” – è tra i giganti globali della trasformazione digitale. Da molti anni ha messo in piedi un team di persone dedicato al tema, e ha sviluppato Quantum Learning Machine, supercomputer che ha l’obiettivo di simulare il comportamento degli elaboratori del futuro: “Perché – sottolinea il manager – di quantum computing si parla molto; ma ancora non esiste una macchina disponibile a livello commerciale”.
Di Franco, quali sono i macrotrend che vede per i prossimi anni?
Oltre a quantum e high performance computing, direi sicuramente i dati e la capacità di generare informazioni rilevanti per il business a partire da essi. E poi la sicurezza.
Sul quantum computing la corsa è cominciata da tempo. A che punto siamo in Europa?
Va premesso che a livello globale esiste, attualmente, una polarizzazione tra Usa e Cina. La strategia di Bruxelles è incentrata sulla sovranità tecnologica, e il quantum ne fa parte a pieno titolo assieme all’high performance computing, alla trasformazione digitale, all’introduzione della subscription economy. C’è tutto lo spazio per crescere, lo dimostrano i numeri: negli Usa l’80% del valore di capitalizzazione in borsa è rappresentata da aziende del comparto tecnologico. Nel Vecchio Continente il dato si attesta attorno al 2%.
E l’Italia?
Il Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza, ndr) recepisce abbastanza la politica europea. Nel documento è previsto un investimento da cinquanta miliardi di euro sul digitale: bisognerà vedere se il Paese sarà capace di recepirli e spenderli in maniera efficace.
Non è raro che fondi restino inutilizzati.
O che vengano spesi male. Ma è un’opportunità senza precedenti di giocare una partita di livello continentale. A questo riguardo, entro fine anno al Cineca di Bologna vedrà la luce il secondo supercomputer al mondo, completamente finanziato dall’Europa e basato su tecnologia Atos: si chiamerà Leonardo, e sarà un asset importantissimo per la ricerca e lo sviluppo del nostro Paese. Faccio notare che tutta la catena del valore è rimasta in Europa: non è un dettaglio, se pensiamo in termini di sicurezza.
Torniamo ai computer quantistici. Per il momento restano in laboratorio. Si parla di 10-15 anni per vedere i primi risultati commerciali. Che previsioni fa, lei?
È molto difficile stimare i tempi di evoluzione di una tecnologia. Sappiamo, per nostra fortuna o sfortuna, che di solito l’anadamento è esponenziale: lento all’inizio, per poi accelerare. A quel punto, il limite è il cielo, e la nostra resistenza a pensare in maniera differente. Le faccio un paragone che gira nell’industria: se ci troviamo di fronte a una montagna, con un computer normale per capire cosa c’è dietro bisogna scalarla e scendere dall’altra parte. Con quello quantistico, è come scavare un tunnel: una tecnologia completamente diversa, che apre sconfinate opportunità.
Quali?
Per citarne alcune, la modellistica avanzata in campo finanziario e climatico, i gemelli digitali, la gestione efficiente di sistemi territoriali complessi, che si tratti di garantire maggiore integrazione ai servizi presenti in una città, in una regione o addirittura in un intero Paese. Le opportunità sono infinite, come quelle che la tecnologia digitale offre alla decarbonizzazione. Ma non mancano i rischi.
Cosa accadrebbe se domani qualcuno annunciasse di aver realizzato il computer quantistico?
Le nostro banche e le nostre istituzioni diventerebbero all’improvviso estremamente vulnerabili: con una tecnologia di questo tipo, la crittografia tradizionale sarebbe a rischio, perché parliamo di macchine in grado di effettuare trilioni di tentativi di accesso al sistema in pochi secondi. Insomma, il tema già noto della cybersecurity diventerà sempre più centrale con i computer quantistici.
Negli anni Sessanta nessuno avrebbe pensato che ci saremmo trovati microprocessori in ogni casa, in ogni tasca o addirittura al polso. Sappiamo com’è andata. È possibile immaginare i computer quantistici nelle abitazioni di domani? Oppure resteranno mastodonti da laboratorio?
La verità è che non lo so. Quello che posso dire è che ciò che spinge una tecnologia verso l’evoluzione è il fattore economico, legato a utilizzo e capacità di investimento. La tecnologia degli elaboratori è giunta fino al punto in cui si trova oggi perché si è creato un mercato: fondi e capacità di investimento possono portarci a risultati che nemmeno immaginiamo. Ma non è detto che la direzione sia quella della miniaturizzazione: lo sviluppo potrebbe riguardare, invece, la capacità di condividere un computer dalle grandissime potenzialità. Non dimentichiamo che oggi la tecnologia si sta spostando verso il concetto di condivisione dell’asset. Il car sharing ne è un esempio, ma ce ne sono tanti altri, come la condivisione di reti elettriche. Il Cineca stesso è un consorzio interuniversitario alla cui capacità di calcolo accedono numerosi atenei e imprese.
Al lavoro sui computer quantistici ci sono grandi multinazionali come Alphabet e Microsoft ma anche una schiera di piccole startup, anche italiane, avanzatissime sotto il profilo tecnologico. Che cosa possono offrire in termini di open innovation ai grandi attori del settore?
Le startup sono al centro della nostra strategia, e lo sono in due modi. Da una parte, sempre più spesso ci presentiamo con loro dai nostri clienti, perlopiù grandi gruppi, perché sono loro stessi a chiedercelo, specialmente quelli più sensibili al percorso dell’innovazione: ne apprezzano il potenziale, quando è accompagnato dalle “spalle larghe” di un’organizzazione più complessa e dotata di capacità di management. Dall’altra, abbiamo innumerevoli programmi di scouting sia a livello internazionale che italiano che possono tradursi in collaborazioni. Per esempio, con Modelway, una startup che abbiamo incontrato grazie al network di Elis, stiamo ottimizzando il consumo energetico dell’high performance computer di Leonardo (l’ex Finmeccanica, ndr).
Come avviene, di fatto, questo scouting?
Ciclicamente proponiamo una selezione di temi di interesse con delle call: tra gli ultimi la decarbonizzazione e le possibilità che offre la tecnologia digitale di ridurre le emissioni di gas serra. Questo è tra gli ambiti di più grande attenzione e sviluppo.
Domanda di chiusura obbligata: che tipo di rapporto avete con le startup che individuate? Entrate nel capitale, le acquisite, semplice collaborazione?
La natura del rapporto è data dal mercato, si sviluppa in maniera importante quando esiste un obiettivo di livello. La nostra capacità di investimento è in funzione di quello.