Dopo essere approdato su PC e Xbox, finalmente questa deliziosa avventura in cappa e spada arriva su Nintendo Switch e Sony PS4 e PlayStation 5
Nel giro di pochi giorni sui nostri Nintendo Switch sono approdati due Zelda – game creati da sviluppatori solitari. Il primo è Innocence Island, di Rainy Night Creations che, come saprete se avete letto la nostra recensione, non ci ha convinto troppo. Il secondo è invece Tunic, di Andrew Shouldice, che se lo è cullato per ben sette anni, salvo poi prendersi tempo aggiuntivo per rifinire al meglio le versioni per Nintendo Switch e PS4 e PlayStation 5, finalmente nelle nostre mani (sì, tutte quante).
Soltanto negli ultimi due anni, su queste pagine, sono passati almeno una ventina di titoli sviluppati da software house indipendenti che hanno tentato di rivaleggiare con il capolavoro Nintendo e i risultati sono stati altalenanti. L’ultimo recensito, in ordine di tempo, è stato Xel, sviluppato dalla software house tedesca Tiny Roar, fondata nel 2015, mentre qualche mese prima era arrivato Anuchard, partorito dalla startup indonesiana stellar-Ø o stellarNull che aveva a sua volta preceduto di qualche settimana Ocean’s Heart firmato Nordcurrent e che, dei titoli citati finora, è sicuramente il più affine a Blossom Tales II The Minotaur Prince.
Final Sword Definitive Edition (qui la nostra recensione) da Zelda aveva perfino preso le musiche, tanto che ha dovuto sostituirle in fretta è furia per non incorrere in seri guai legali. Resta comunque un dolore atroce, tanto alla vista, quanto per il nostro ego videoludico. Stategli lontano. È andata meglio a Oceanhorn 2 (qui la nostra recensione), che ha deciso di scopiazzare un capitolo in particolare, almeno per lo stile grafico, cioé Skyward Sword (che nel frattempo è arrivato su Switch, come The Legend of Zelda Skyward Sword HD ). Non male, ma il titolo originale resta su altri livelli. Rogue Heroes: Ruins of Tasos (qui la recensione) si è invece ispirato allo spin-off multiplayer Zelda: Four Swords Adventures, ma è sicuramente andata meglio a Ary and the Secret of Seasons (lo abbiamo testato qui) che, nonostante i limiti, ha saputo divertirci.
Bocciato su tutta la linea, invece, il noiosissimo Windbound (lo abbiamo recensito qui). Pure diversi team italiani si sono cimentati nell’impresa: da un lato abbiamo Baldo: The Guardian Owls (qui la recensione), che non si è rivelato proprio all’altezza delle aspettative, ma è senz’altro tra i cloni che sono riusciti a distinguersi, dall’altro Racoonie (qui l’anteprima), un titolo tuttora in via di sviluppo che speriamo possa far parlare bene di sé.
Spada c’è, scudo anche… e la Tunic?
In tutta questa sarabanda di cloni del nostro elfo preferito si trova pure la smarrita volpacchiotta rossa protagonista di Tunic la quale, nella miglior tradizione zeldaresca, inizia la propria avventura… ronfando. Non per pigrizia, sia chiaro, ma perché ha perso i sensi. Rinviene infatti sulla spiaggia di un’isola misteriosa e ben poco ospitale (e la memoria subito corre a The Legend of Zelda A Link’s Awakening. letta la nostra recensione dell’edizione per Switch?) e di lì a poco sarà circondata da mostri, da affrontare armata solo di bastoni. Tunic è insomma un vero e proprio Zelda – like, in particolare si rifà a quelli per NES, GameBoy e SNES, dove si viene catapultati subito nel cuore dell’avventura, senza comprendere troppo bene quanto stia accadendo. Di più: dove si ha a che fare con mondi così vasti ed enigmi così cattivelli che è bene giocare con matita e taccuino a portata di mano.
Al pari della serie Nintendo, però, Tunic non è affatto punitivo, nonostante l’anima old school. Anzi, accompagna il giocatore nelle meccaniche che vengono di volta in volta introdotte da nuove armi e oggetti. A rendere ancora più vividi i ricordi dei pomeriggi spesi con le vecchie console ci pensa un manuale di istruzioni che è l’esatta copia, per grafica e contenuti, di quelli che si trovavano nelle confezioni dei videogame anni ’80 e ’90. Qui è riproposto sotto forma digitale e andrà arricchito con le pagine mancanti, essenziali per procedere. Il sistema di combattimento rimanda invece a Dark Souls e contempla, oltre alla barra della vita, anche una di colore verde che non è della magia, come negli Zelda tradizionali, ma dell’energia.
È davvero piacevole “perdersi” tra le varie schermate che compongono quest’isola dimenticata, tra rovine non proprio abbandonate e dungeon ricchi di enigmi e, ovviamente, boss che ci attendono al varco. L’eroe, ovviamente, cresce e si irrobustisce progredendo, mentre i nostri occhi non dovranno mai smettere di setacciare ogni singolo pixel, visto che l’opera di Andrew Shouldice nasconde tantissimi segreti, molti dei quali camuffati ad arte grazie a un uso sapiente della visuale isometrica. Questo ci porta a parlare della realizzazione grafica che, come avrete capito dalle immagini e dai video che troverete qui attorno, nella sua essenzialità è semplicemente deliziosa, tanto più per un gioco sviluppato da una singola persona. Un piccolo capolavoro, applausi a scena aperta.