Oiffy riesce in un’impresa: denunciare le storture della nostra società senza scadere nel banale o già visto
Quando il videogioco incontra l’attualità e le riflessioni più profonde sul ruolo dell’uomo nella società spuntano spesso piccole gemme. The Last Worker, opera prima di Oiffy, è disponibile su tutte le piattaforme, comprese quelle per la VR. L’esperienza che il gamer andrà ad affrontare è un immersione nel ruolo dell’ultimo lavoratore presente all’interno di una macchina automatizzata. Jüngle è un gigante che non consegna pacchi, ma sogni alle persone – leggi clienti – che possono così vedere la propria vita pienamente appagata. Il fulfillment center nel quale opera il protagonista è un quadro perfetto dal punto di vista ingegneristico: tutto è asettico e al proprio posto. Che ci fa allora un uomo in un luogo così efficiente? A cosa serve?
Kurt, questo è il nome del protagonista, vanta un’esperienza di 25 anni all’interno della fabbrica. Eppure è il Ceo in persona a dargli il benvenuto, facendogli capire che il suo è come se fosse il primo giorno di lavoro. L’escamotage è perfetto per attivare un brevissimo tutorial. The Last Worker non è un titolo dal gameplay troppo elaborato: si gioca in prima persona e si pilota un veicolo volante col quale Kurt riesce a raggiungere gli scaffali più alti, dove prendere il pacco da spedire.
Disponibile con sottotitoli in italiano, The Last Worker è un’avventura narrativa che merita anzitutto di essere giocata per via della sceneggiatura e dei doppiaggi. Kurt ha la voce di Ólafur Darri Ólafsson (Children, The Deep) e Skew, il suo assistente robot, è Jason Isaacs (il Lucius Malfoy della saga di Harry Potter). L’inizio del titolo è surreale: un caos che non dà realmente l’idea di cosa stia succedendo. Kurt ha realmente fatto quanto ha appena visto? O qualcosa di terribile sta invece per succedere? Sappiamo soltanto che è stanco, spossato, ma ha ben chiaro quel che è stato il contributo (forse eccessivo) donato all’azienda. Da cui in cambio ha ricevuto ben poco se non banalissime pacche sulle spalle.
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L’aspetto teatrale di The Last Worker è che lascia spazio all’immaginazione del gamer, libero di ipotizzare e spingersi in speculazione esistenziali. Del resto, come potrebbe non essere così: chi mai vorrebbe vivere la propria quotidianità lavorativa in una fabbrica immensa dove non c’è traccia di umanità. L’amministratore delegato, un ologramma dal sorriso beffardo e quasi diabolico, non si vede mai in carne e ossa. Ha una visione messianica del ruolo della propria azienda nel mondo. Ma perché mai ha scelto di mantenere nei ranghi Kurt? Un robot non potrebbe svolgere meglio la sua mansione, costando molto molto meno?
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Ci sono già capitati sotto mano titoli in cui la logistica è lo spunto narrativo per raccontare un’epoca più o meno distopica. Ci viene in mente Cloudpunk, uno strabiliante indie realizzato in voxel art nel quale il facchino deve consegnare pacchi in una città funestata da notte e pioggia perenni. Di tutt’altro tenore è Lake, un gioiello che fa della consegna dei pacchi un inno alla lentezza e alla riscoperta dei rapporti umani.
Ma torniamo a The Last Worker. Siamo di fronte a un prodotto che ha anche forti connotati artistici, al punto che il titolo è stato selezionato per la Biennale di Venezia nel 2021. Il viaggio è una scoperta a rilascio lento, nel quale non c’è fretta: il giocatore avrà modo di scoprire ogni aspetto mano a mano. Egregia la direzione artistica: i disegni fatti a mano sono degni delle migliori produzioni, con perfino un labiale che farebbe sfigurare produzioni ben più ricche.