Great Firewall e controllo minuzioso dei contenuti postati sulla rete, con pressione sulle grandi piattaforme digitali internazionali per seguire le indicazioni del governo. Il modello della Rete cinese si diffonde in tutta l’Asia
Le maglie si fanno sempre più strette. La Rete finisce sempre più sotto il controllo dei governi. Poco più di venti anni fa si credeva che la rivoluzione digitale portata da internet con un nuovo ecosistema che si pensava fosse impossibile da controllare avrebbe “addomesticato” anche la Cina. E invece Pechino è riuscita a non solo a mantenere ma anche a rafforzare il controllo garantito dal suo sistema. Modellando, normalizzando, controllando. Ma anche innovando, con un occidente che si è accorto in ritardo del processo di trasformazione della Cina da “fabbrica del mondo” a società “prospera” e forse in futuro “armoniosa”, da paese in via di sviluppo a potenza che non ha più bisogno di nascondere le proprie ambizioni.
La Cina sta continuando a perfezionare il suo sistema di controllo su internet e sui social, sui quali viene garantito uno spazio negoziale coi netizens, a patto che l’autorità del Partito comunista non sia messa in discussione. L’ultimo step di un lungo processo che ha portato alla creazione di una Great Firewall è avvenuto poche settimane fa, quando l’autorità di regolamentazione di internet, la Cyberspace Administration of China, (CAC) ha pubblicato una bozza di aggiornamento sulle responsabilità delle piattaforme e dei creatori di contenuti nella gestione dei commenti online. Su tutte spicca una riga del testo, quella che recita: “Tutti i commenti online dovranno essere pre-revisionati prima di essere pubblicati”. Le disposizioni riguardano molti tipi di commenti, tra cui i post sui forum, le risposte, i messaggi lasciati sulle bacheche pubbliche e le cosiddette “bullet chat” (un metodo utilizzato dalle piattaforme video in Cina per visualizzare i commenti in tempo reale sopra un video). Tutti i formati, compresi testi, simboli, GIF, immagini, audio e video, rientrano nel campo di applicazione del regolamento.
Secondo le autorità cinesi, si è reso necessario un regolamento a sé stante sui commenti, perché il loro numero elevatissimo li rende difficili se non impossibile da controllare (e da censurare) con lo stesso rigore di altri contenuti come articoli o video. Come spiegato da Technology Review, Pechino sta costantemente perfezionando il controllo dei social media, colmando le lacune e introducendo nuove restrizioni. Ma la vaghezza delle ultime revisioni lascia perplessi alcuni osservatori: se la nuova regola sull’obbligo di revisione prima della pubblicazione verrà applicata rigorosamente le piattaforme saranno costrette ad aumentare drasticamente il numero di persone impiegate per effettuare la censura, perché sarebbe necessaria la lettura di miliardi di messaggi pubblici postati dagli utenti cinesi ogni giorno. Come sempre accade in Cina, la portata della regola dipende dall’effettiva applicazione che ne verrà fatta nel concreto.
Il modello cinese esportato nel resto dell’Asia
Ma intanto la riorganizzazione autarchica cinese della rete e dello spazio digitale ha iniziato ad affascinare molti. Per esempio tutti coloro che hanno capito che persino internet può essere non solo regolato (seppur dialetticamente) ma anche sfruttato in modo funzionale ad alcuni obiettivi. A partire dai vicini asiatici. Singapore sta preparando una legge che concederà alle autorità di regolamentazione il potere di ordinare ai servizi di social media di rimuovere o bloccare i contenuti online ritenuti dannosi, soprattutto per i giovani. Le piattaforme di social media dovranno implementare nuovi standard e processi di moderazione dei contenuti per proteggere gli utenti dai contenuti giudicati “dannosi”. Singapore sostiene la necessità di introdurre leggi per sorvegliare i contenuti su internet, affermando di essere particolarmente vulnerabile alle fake news e alle campagne di disinformazione, essendo un centro finanziario con una popolazione multietnica che gode di un ampio accesso alla rete. Ma i critici temono che le leggi recentemente promulgate, come quelle che impediscono l’interferenza straniera nella politica locale e che regolano le falsità online, possano essere usate per arginare il dissenso o applicate in modo errato perché troppo vaghe.
Si tratta di una tendenza regionale che si sta diffondendo da tempo in tutto il Sud-Est asiatico. In Cambogia si lavora da tempo al National Internet Fateway (Nig), con gli utenti che dovranno fornire moduli compilati con identità e generalità degli utenti. Il mancato allacciamento al gateway, che dovrà avvenire entro un anno dalla sua entrata in funzione, potrebbe comportare la sospensione delle licenze operative ai fornitori di servizi e persino il blocco dei conti bancari. Il Nig doveva essere lanciato già lo scorso febbraio ma poi la sua introduzione è stata rinviata. La mossa appare una precauzione di fronte al diffondersi delle proteste nei paesi dell’area, Myanmar e Thailandia in primis.
Anche il Vietnam è impegnato in una stretta sul web. Hanoi sta pensando di modificare le sue leggi digitali per costringere le piattaforme di social media a censurare i post entro 24 ore dal ricevimento degli ordini delle autorità. La bozza di decreto richiede inoltre alle aziende tecnologiche di consegnare i dati di contatto degli influencer che fanno livestreaming e hanno almeno 10.000 follower. Questo nonostante il paese sia sempre più un hub regionale per tecnologia e digitale. Già nel 2020, i colossi social internazionali erano stati costretti a sottoscrivere un accordo per la rimozione dei contenuti ritenuti sovversivi. Dopo l’accordo, Facebook avrebbe cancellato il 95% dei post segnalati dalle autorità, YouTube il 90%. Rifiutare è difficile, in un’area con grandissime potenzialità di crescita nel comparto digitale. L’economia digitale vietnamita è in fermento ed è cresciuta del 36% nel 2020. E la percentuale di crescita, secondo uno studio di Google, si dovrebbe mantenere intorno al 29% anche nei prossimi anni, con il valore dell’economia digitale che arriverebbe a 52 miliardi di dollari nel 2025.