Perché un virus muta? Facciamo un po’ di chiarezza, spiegando come e perché si formano le varianti da un punto di vista evolutivo e le possibili contromisure che possiamo adottare per contrastarle
Nuove varianti del coronavirus Sars-CoV-2 sono in rapida diffusione, in Europa come nel resto del mondo. A dare maggiore preoccupazione in Italia è la “variante inglese” (nome tecnico B.1.1.7), che secondo i più recenti studi scientifici potrebbe essere tra il 30% e il 50% più contagiosa rispetto alle precedenti. Ma preoccupano anche altre varianti, in particolare la brasiliana e quella sudafricana, che addirittura si ipotizza essere resistente ai vaccini fin qui prodotti (ma servono ulteriori conferme). Tant’è che le case farmaceutiche Pfizer e Moderna stanno già correndo ai ripari.
Ma perché un virus muta? E quando una variante può essere definita tale? Cominciamo col fare un po’ di chiarezza, spiegando come e perché si formano le varianti di un virus da un punto di vista evolutivo e le possibili contromisure che possiamo adottare per contrastarle.
Il paradosso della Regina Rossa
“Ora, in questo luogo, come puoi vedere, ci vuole tutta la velocità di cui si dispone se si vuole rimanere nello stesso posto…” diceva la Regina Rossa ad Alice nella famosa opera di Lewis Caroll. In effetti, la metafora più calzante per spiegare l’evoluzione dei virus è sicuramente la cosiddetta “Ipotesi della Regina Rossa”, elaborata per la prima volta nel 1973 da Leigh Van Valen, famoso biologo evoluzionista del secolo scorso.
Secondo la sua teoria, in un sistema ecologico idealizzato formato da un parassita (il virus) e l’ospite (l’uomo), gli individui appartenenti alle due specie andranno incontro a una sorta di “corsa agli armamenti”, dove ognuno cerca di migliorare la capacità di riprodursi e quindi di sopravvivere. In questo contesto, il virus cambierà continuamente per favorire la propria capacità di infettare l’organismo ospite, così come l’uomo tenderà a sviluppare difese immunitarie sempre più efficaci nel resistergli. “Correre”, quindi, ma solo per tornare ad una condizione dove entrambe le specie sono di nuovo in equilibrio “nello stesso posto”, anche se in realtà profondamente cambiate. È probabilmente questo meccanismo, conosciuto anche come co-evoluzione, che stiamo osservando oggi nel Sars-CoV-2.
Perché il virus sta mutando
Le mutazioni sono il motore dell’evoluzione. Se il meccanismo di replicazione dei genomi non producesse dei piccoli “errori” poi trasmessi alla prole, la diversità di forme e di specie oggi sulla Terra non esisterebbe. Molte di queste mutazioni sono “neutrali”, cioè non riguardano geni coinvolti nella sintesi di proteine funzionali per l’organismo. Quando invece mutano geni codificanti, le proprietà biologiche dell’organismo cambiano sensibilmente, acquisendo nuove caratteristiche che, se risulteranno favorevoli, persisteranno nelle generazioni future.
Gli studi sull’argomento al momento confermano che le mutazioni genetiche riscontrate nelle nuove varianti riguardano le sequenze del genoma coinvolte nella produzione delle proteine virali necessarie all’infezione delle cellule ospiti. È quindi molto probabile che questi nuovi ceppi abbiano acquisito una maggiore capacità di infettare l’ospite e alcuni studi preliminari allertano sul fatto che alcune varianti, come quella inglese, possano anche provocare sintomi più gravi.
Parte di questa capacità aumentata di diffondersi sarebbe determinata dalla capacità dei nuovi ceppi di infettare meglio le fasce di popolazioni più giovani, le quali contribuirebbero a diffondere il virus a tutto il resto della popolazione. Ma quali sono le ricadute di tutto ciò sulle politiche sanitarie e sui piani vaccinali? E soprattutto, cosa possiamo fare per rispondere adeguatamente a questa nuova minaccia? La risposta ce la suggerisce ancora una volta la Regina Rossa: non possiamo fare altro che “correre” per tenere il passo.
Correre, ma smettendo di rincorrere
Per fare ciò, noi essere umani, a differenza delle altre specie animali, possiamo fare ricorso non solo alle nostre risorse biologiche (cioè il nostro sistema immunitario), ma anche a quelle sociali e culturali che contraddistinguono la storia naturale della nostra specie. Gli esperti ci dicono che l’unico modo che abbiamo per contrastare il proliferare delle nuove varianti è quello di limitare il più possibile la circolazione del virus. Diminuendo così la sua capacità di riprodursi e quindi di mutare.
Da questo punto di vista diventa quindi di fondamentale importanza il raggiungimento di adeguati livelli di vaccinazione nella popolazione. Con l’obiettivo di mantenere bassi livelli di contagio e quindi limitare la circolazione del virus. Eppure, viste tutte le considerazioni fatte fino ad ora, la domanda sorge spontanea e ormai circola da tempo fra gli specialisti: vista la capacità del coronavirus di mutare così rapidamente, saranno i vaccini in grado di proteggerci anche da queste varianti?
Vaccini e nuove varianti
Al momento non ci sono prove certe che dimostrino l’inefficacia dei vaccini nei confronti di queste nuove varianti. Nonostante ciò, uno studio preliminare ha dimostrato che gli individui vaccinati e infettati della variante sudafricana, esprimano una risposta immuno-corpale nettamente minore rispetto a quelli infatti dalla variante originale. In generale, il timore che il virus evolva così rapidamente da essere in grado di eludere le difese acquisite tramite il vaccino (o grazie a un’infezione precedente) è tanta. L’ipotesi più probabile è che, anche qualora il vaccino non fosse completamente protettivo nei confronti di tutte le varianti, la seconda infezione sarà comunque più lieve della prima, in quanto una parziale risposta immunitaria verrebbe comunque attivata.
Giocare d’anticipo
Se così fosse, dovremmo prepararci all’idea di dover “aggiornare” i vaccini ai ceppi virali emergenti, in maniera analoga a quanto normalmente succede con i vaccini anti-influenzali. Nell’attesa che ulteriori studi facciano luce su questo argomento, non possiamo fare altro che continuare a mantenere inalterate le attuali misure di sicurezza, sia personali che collettive. Rafforzandole qualora fosse necessario.
Inoltre, nel medio-lungo termine è necessario avviare un dibattito più complessivo sull’adeguamento del sistema sanitario e più in generale del modo in cui organizziamo il nostro lavoro e le nostre vite. Se, come ormai sembra assodato da numerosi studi, le pandemie mondiali diventeranno più frequenti a causa delle attività umane non sostenibili, è bene affrontare questa sfida con lo sguardo oltre la fase di emergenza che stiamo vivendo. “Correre” diceva la Regina Rossa, ma non solo per tenere il passo del virus, ma anche e soprattutto per provare ad anticipare le prossime minacce e non farci cogliere impreparati nel prossimo futuro.