La startup britannica di Daniel Fineberg e Gregorios Kythreotis debutta sull’ammiraglia Sony
È davvero bello poter ritrovare uno dei titoli indipendenti più riusciti del 2021 (ma annunciato fin dal 2018) su PlayStation 5, dato che l’arrivo di Sable sul “nuovo” hardware Sony ci ha permesso di saltare nuovamente in sella a Simoon per immergerci ancora una volta nell’affascinante e avvolgente deserto di Midden, in un viaggio alla scoperta di un’antica civiltà, ma soprattutto di noi stessi.
Sable, una vita fatta di maschere
Sable, difatti, è un’opera molto peculiare. L’esplorazione si muove lungo i canoni fissati da The Legend of Zelda – Breath of the Wild, il che vuol dire che di fatto non esiste punto dello scenario che la nostra giovane avventuriera, alle prese con un importante rito di passaggio da superare per fare il proprio ingresso nell’età adulta, non possa raggiungere. Esattamente come nel capolavoro Nintendo si scalano montagne, si risolvono enigmi, si pesca e si devono fare i conti con la stamina.
Ma le similitudini poi finiscono qui. Perché Sable è anzitutto un percorso di formazione e i due ragazzi – Daniel Fineberg e Gregorios Kythreotis – che animano la startup britannica Shedworks hanno voluto sottolinearlo mettendo spessissimo i pensieri e gli stati d’animo dell’eroina al centro della scena soprattutto nei dialoghi coi numerosi PNG. Questo fortunatamente non appesantisce troppo, ma abituati come siamo a un Link silenzioso e imperscrutabile, questo è senza dubbio un elemento di rottura.
Allo stesso tempo, Sable e Zelda divergono laddove il mondo desertico del primo è davvero un deserto, non prevedendo manco l’ombra di un nemico e dal fatto che sia impossibile morire, nemmeno a seguito della caduta più rovinosa. Quest’ultimo elemento, purtroppo, toglie un po’ di enfasi alle fasi di esplorazione, rendendo le scalate più che insidiose quasi una fastidiosa routine, visto che alla peggio si cade ai piedi della montagna per dovere riniziare dal principio.
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In compenso, anche Sable, come Breath of the Wild, si divide in due sequenze: una iniziale seguita da quella più corposa che vi getta nel mondo di gioco vero e proprio. In Zelda le prime ore passavano sul Grand Plateau per potenziale la tavoletta Sheikah. Allo stesso modo, in Sable le prime missioni ci chiedono di assemblare la propria hoverbike, Simoon, per poi buttarci nel cuore dell’avventura che, sulla falsariga di quella Nintendo, ci lascia totalmente liberi di decidere destinazione e azioni da intraprendere. Volendo sarebbe perfino possibile terminare il gioco in poche ore, alla prima maschera ottenuta (si ottengono aiutando i PNG), ma difficilmente vorrete rientrare al vostro villaggio così in fretta.
Perché il viaggio proposto da Sable, che lo decliniate in una affannosa cerca delle maschere, nella semplice raccolta di nuovi vestiti per la protagonista, nel potenziamento di Simoon, nel peregrinare fine a se stesso nel piccolo/grande mondo messo in piedi dalla software house britannica oppure nell’esplorazione delle numerose rovine metalliche fatiscenti zeppe di enigmi da risolvere, è comunque carico di significati, forte soprattutto di un impianto grafico di pregio, che è riuscito a fare di necessità virtù imbellettando come meglio non si poteva un motore tecnico low poly. Anche l’aspetto estetico conferisce a quest’avventura dai ritmi compassati un forte sapore esistenziale. Un percorso da compiere in solitudine, per crescere e diventare migliori.