Dopo la fusione con Sgnam, nel 2018 Mymenu ha duplicato il fatturato puntando a una fascia di consumo medio-alta e ristoranti di qualità
Non è una replica all’italiana di Just Eat, Foodora, Glovo o Deliveroo.
Anche se il modus operandi è lo stesso, offrendo un servizio di consegna pasto a domicilio, Mymenu si differenzia dai competitor sotto diversi punti di vista. Primo tra tutti: il target.
Questa startup si rivolge principalmente a una fascia di consumo medio-alta e, per la maggior parte, con servizi B2B (in media, con Mymenu i consumatori pagano 38 euro a pasto, contro i 20 di altri players internazionali). Cosa giustifica questo aumento di prezzo? La scelta dei locali dove poter ordinare. Su Mymenu, infatti, si può confrontare un’ampia selezione di ristoranti che puntano a una clientela alla ricerca di una maggiore qualità di prodotti e servizi. “Differenziandoci dai nostri concorrenti internazionali, otteniamo maggiore marginalità sull’ordine e, dunque, una più alta sostenibilità“, dichiara il presidente, Giovanni Cavallo.
Da pochi giorni, la startup ha lanciato anche la propria raccolta fondi, che proseguirà per i prossimi 3 mesi con due obiettivi: rendere l’azienda ancora più sostenibile ed espandersi nel settore B2B del food delivery. Traguardo auspicato da Giovanni: raggiungere quota un milione e mezzo di euro di capitali raccolti per la crescita.
Da Sgnam a Mymenu
Più o meno contemporaneamente alla nascita delle più note aziende di consegna pasti a domicilio, sei anni fa, Giovanni Cavallo e il socio, Lorenzo Lelli a Bologna davano vita a Sgnam. E sempre nello stesso momento, a Padova, Edoardo Tribuzio fondava Mymenu.
Il marchio è oggi operativo a Milano, Bologna, Padova, Brescia, Verona e Modena.
Adesso i tre lavorano insieme sotto un unico brand: Mymenu, rispettivamente come presidente, CTO e CEO.
Ma per arrivare a questo risultato, sono stati necessari diversi passaggi. Tra questi: la fusione tra Sgnam e Mymenu, e l’acquisizione del competitor milanese BacchetteForchette, che ha permesso ai tre giovani imprenditori di accedere ad una fascia di consumo medio-alta.
“Gli investitori, tra cui la società di venture capital P101, hanno giocato un ruolo importante. E’ anche grazie a loro, infatti, se siamo cresciuti così rapidamente, già nei primi 12 mesi – rivela Giovanni – Prima di dirigerci verso questo tipo di target, era una continua lotta allo sconto, al regalo, che non ci premiava e, anzi, per noi era difficilmente sostenibile”.
Oggi, sul mercato milanese, nei servizi B2C di Mymenu gli scontrini si aggirano sui 50 euro, mentre per il B2B superano anche i 70 euro. “Il modello Just Eat ci schiacciava. Siamo stati in grado di elaborare questa formula che ci ha portato al successo concludendo, nel 2018, transazioni per 5 milioni di euro e raddoppiando il fatturato rispetto al 2017 – continua Giovanni – Questo è stato possibile anche grazie all’acceleratore Nana Bianca, che ha, da subito, creduto nel nostro progetto e ci ha affiancato lungo il nostro percorso indirizzandoci verso risorse ed obiettivi strategici“.
Il modello Mymenu prevede il pagamento di una fee percentuale su ogni ordine per il ristorante affiliato, oltre a un costo di consegna a carico del cliente finale. “Prima di arrivare a questa formula, abbiamo fatto un percorso in evoluzione – spiega Cavallo – con Sgnam eravamo più intermediari, mettevamo in connessione clientela e ristoranti che già consegnavano, ma non funzionava. I costi troppo alti ci facevano essere costantemente in perdita. Oggi pensiamo di aver trovato la nostra strada, dirigendoci più verso il B2B e consolidandoci, per il momento, soprattutto nel nord Italia“.
Mymenu per i diritti dei drivers
Attualmente, il team di Mymenu conta 15 persone, tra dipendenti e collaboratori, esclusi Giovanni, Lorenzo ed Edoardo. “La nostra forza è la complementarietà che ci contraddistingue. Ci avvaliamo, inoltre, di una rete di più di 600 drivers, che si spostano in bicicletta o scooter, e di 500 ristoranti“, afferma Cavallo, precisando che Mymenu è stata l’unica piattaforma di food delivery a firmare la Carta dei diritti dei lavoratori digitali del Comune di Bologna per tutelare i fattorini anche nella gig economy.
“I nostri drivers percepiscono una retribuzione più alta rispetto alla media italiana. Non esiste un profilo-tipo del driver. A lavorare per noi ci sono persone di diverse fasce d’età: dagli studenti ai padri di famiglia, tutti molto flessibili ed elastici”. E pensando al futuro, Giovanni confessa: “Stiamo testando anche altri progetti nel settore della ristorazione”.