Il titolo è sviluppato da un team di Barcellona
Chi l’ha detto che l’elemento horror viene potenziato da una colonna sonora angosciante? Spesso il rischio è quello di anticipare un grosso spavento creando artificialmente la paura. In questo Ikai, titolo sviluppato dalla software house indie Endflame, ha scelto la strada opposta. Niente musiche o melodie disturbanti: soltanto il rumore dei nostri passi su un fragile tatami e gli spifferi di vento che riempiono un silenzio da incubo. Il team di sviluppo con sede a Barcellona ci porta nel Giappone feudale, all’interno di un tempio sapientemente ricreato, con corridoi stretti, lanterne da accendere e tanti cassetti da aprire per raccogliere risorse e chissà quali altre diavolerie. Lo abbiamo provato su Nintendo Switch.
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Come vuole il genere, Ikai si gioca in prima persona. Nei panni di una giovane sacerdotessa di nome Naoko iniziamo un’avventura da incubo all’interno di un tempio giapponese, dove spiriti maligni hanno preso il sopravvento e ora tocca a noi mettere in pratica i dovuti riti per purificare gli ambienti infestati dal male. Il videogioco manda al gamer un costante invito all’esplorazione cauta di angoli e stanze, spesso male illuminate se non buie. Come accade in tanti altri horror, la semplice azione di accendere una candela ci scarica addosso la paura di scoprire che cosa c’è davvero intorno a noi.
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La sceneggiatura di Ikai è azzeccata e, per quanto non innovativa dal punto di vista della storia, è riuscita più volte a regalarci momenti di ansia senza scadere nel ripetitivo jump scare. Oltre ad esplorare, la sacerdotessa deve anche interagire con l’ambiente, usando il puntatore per aprire cassetti, far scorrere porte o disegnare su un foglio sigilli che serviranno a scacciare il male che alberga nel tempio.
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Anche chi non è mai stato in un tempio giapponese se lo immagina come un luogo essenziale e ordinato. Da questo punto di vista Ikai rispetta il canone e non ci fa perdere tempo in un’esplorazione sterile. Gli oggetti con cui interagire non sono così tanti. A livello grafico abbiamo notato qualche effetto pop up, pur riconoscendo un discreto lavoro sulle texture facilitato anche dalle tante zone buie dove i dettagli si notano a malapena.
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Forse la nota che stona di più è il doppiaggio: Ikai è ambientato nel Giappone feudale, ma la nostra protagonista parla uno spanglish che, nei pochi momenti di calma, fa abbastanza sorridere. Quanto sarebbe stato bello una parlata originale? Vero anche che per un team indipendente uno sforzo simile potrebbe non essere stato alla portata del budget. Nel suo complesso il videogioco soddisfa soprattutto un pubblico in cerca di ansia costante e, come spesso accade negli horror, taglia fuori da subito chi mai si azzarderebbe a guardare un film di paura, neppure a luglio in pieno giorno, quando in giardino è in corso una grigliata.