“L’antivaccinismo non è affatto un fenomeno recente; al contrario, ha almeno tre secoli di storia”. Tra il paradosso della prevenzione e l’importanza delle comunicazione, ripercorriamo la storia degli scettici delle vaccinazioni
Se volessimo risalire alle origini del dibattito sulle vaccinazioni, dovremmo tornare indietro ai primi del Settecento, quando una nobildonna, la poetessa Mary Wortley Montagu, moglie dell’ambasciatore britannico a Costantinopoli, descrisse con entusiasmo alla sua cerchia di amici aristocratici una strana pratica capace di proteggere i bambini dal vaiolo. Quella pratica, oggi conosciuta come variolizzazione e diffusa da secoli in Asia e nel mondo arabo, consisteva nell’inoculare in un bambino sano del pus prelevato da una persona infetta. Se la carica virale non era eccessiva, il bambino avrebbe sviluppato solo una forma lieve della malattia, dalla quale sarebbe stato immune per il resto della vita.
L’inizio della diatriba sui vaccini
La variolizzazione non era priva di rischi, ma all’epoca non esistevano altri rimedi contro il vaiolo, un morbo che, oltre a lasciare cicatrici deturpanti nei sopravvissuti, spesso aveva un esito fatale. Nel 1715 la stessa Lady Montagu aveva contratto la malattia, che le aveva lasciato segni profondi sul volto. Decise allora di sperimentare la variolizzazione sui suoi figli, che in seguito non contrassero mai il vaiolo. Ma le riserve non mancavano, sia per i rischi elevati, sia per l’ostilità dei medici verso una pratica considerata barbara che «barattava la salute con la malattia». Fu così che ebbe inizio l’accesa diatriba che ancora oggi, seppure con motivazioni e accenti diversi, accompagna l’immunizzazione delle persone sane per prevenire le malattie infettive.
Tre secoli di controversie
«A differenza di quel che si potrebbe credere, l’antivaccinismo non è affatto un fenomeno recente; al contrario, ha almeno tre secoli di storia e, come mostra la querelle sulla variolizzazione, ha persino anticipato l’arrivo dei vaccini», spiega Eugenia Tognotti, storica della medicina e della sanità all’Università di Sassari e autrice del saggio Vaccinare i bambini tra obbligo e persuasione: tre secoli di controversie (FrancoAngeli, 2020).
Il primo vaccino
È infatti solo alla fine del Settecento, racconta l’autrice nelle pagine del libro, che il medico inglese Edward Jenner riuscì a ottenere il primo vaccino della storia ricorrendo all’inoculazione del vaiolo bovino, che sembrava proteggere gli allevatori dal ben più temibile vaiolo umano. La vaccinazione – come la chiamerà decenni dopo Louis Pasteur – era molto più sicura della variolizzazione, ma non mancò di suscitare nuovi timori e diatribe.
«Si parlò di pratiche contro natura che sconvolgevano i disegni della provvidenza e di “animalizzazione” degli esseri umani, perché la vaccinazione prevedeva l’iniezione di siero bovino», dice Tognotti. Ma al di là del folklore, neppure la classe medica accolse con entusiasmo la vaccinazione perché ribaltava ogni rituale terapeutico. «Anziché cercare di guarire un corpo malato, introduceva un elemento estraneo in un corpo sano. E siccome a quel tempo questa pratica non era esente da gravi effetti avversi, sollevò il dilemma che da sempre domina il dibattito sui vaccini: davvero i vantaggi sono maggiori dei rischi?».
Obbligo o persuasione?
Sebbene tra gli esperimenti pionieristici di Jenner e l’avvento dei rivoluzionari vaccini a mRNA contro la Covid-19 siano trascorsi oltre due secoli, durante i quali le scienze mediche hanno compiuto enormi e innegabili progressi, la controversia, seppure con alterni periodi di maggiore e minore fiducia nelle vaccinazioni, ha continuato ad alimentare il dibattito pubblico.
In Italia, già ai primi dell’Ottocento, la disputa divise anche medici, igienisti, clinici, società scientifiche e accademie, che si chiedevano se fosse più conveniente imporre l’obbligo vaccinale per vincere la diffidenza e le apprensioni dei genitori più riluttanti, o se invece non fosse preferibile «puntare sul dolce mezzo della persuasione e della esperienza, che ne assicuri le resultanze, e che determini una conveniente cura profilattica?».
«A metà Ottocento il dibattito si accese, con toni talora esasperati, proprio in seguito alla decisione del Regno Unito di introdurre l’obbligatorietà delle vaccinazioni per i bambini, una scelta che in un Paese di tradizione liberale venne percepita come un’intollerabile intromissione dello Stato nelle libertà civili e nell’autonomia dei genitori, i quali potevano essere puniti anche con il carcere se si rifiutavano di vaccinare i figli», spiega Tognotti.
La prima Lega italiana antivaccinazione
Nel saggio l’autrice racconta come in Italia la svolta arrivò nel 1888 con la prima legge di riforma sanitaria che introdusse l’obbligatorietà della vaccinazione anti-vaiolosa. Il provvedimento finì però per ampliare anche la platea dei contrari ai vaccini e portò alla fondazione della prima Lega italiana antivaccinazione, fondata da un igienista che aveva posizioni molto critiche verso la comunità scientifica: Carlo Ruata, professore di Materia medica all’Università di Perugia, considerato il pioniere dell’antivaccinismo italiano.
Il paradosso della prevenzione
Ma la di là dell’obbligo, che resta una questione ancora oggi molto dibattuta, nella comunità scientifica c’è ormai un ampio consenso sull’efficacia dei vaccini nel prevenire le malattie infettive. Come si spiega allora il persistere dell’opposizione a farmaci che hanno salvato milioni di vite umane? Secondo Tognotti, le vaccinazioni soffrono oggi del loro stesso successo: «Avendo enormemente ridotto l’incidenza di molte temibili malattie infettive, come la difterite o la poliomielite, le nuove generazioni di genitori non hanno sotto gli occhi la sofferenza dei tanti bambini che un tempo ne erano vittime, e questo può indurre qualcuno a pensare che vaccinarsi non sia vantaggioso».
È un problema che da sempre affligge la prevenzione: più funziona, meno la minaccia appare incombente, cosicché finiamo per abbassare la guardia. Tuttavia, con l’unica eccezione del vaiolo, che è stato addirittura eradicato grazie a una vaccinazione di massa, gli altri patogeni continuano a infettare in modo sporadico gli esseri umani, tenuti a bada dall’immunità di gruppo ma pronti a tornare a diffondersi non appena dovesse aumentare la percentuale di persone non vaccinate, come è accaduto negli ultimi anni per il morbillo.
L’importanza della comunicazione
Ecco perché la comunicazione gioca un ruolo cruciale. Ma bisogna farla bene, avverte Tognotti. «Per non perdere la fiducia delle persone, è importante non nascondere mai i rischi, che sono comunque molto rari e largamente inferiori ai benefici. Al tempo stesso, occorre smascherare le narrazioni che alimentano timori infondati, come la presunta associazione fra vaccini e autismo, che si è rivelata una truffa bella e buona. Ma soprattutto, non bisogna aggredire le persone esitanti, che rimandano o rifiutano le vaccinazioni perché nutrono dei dubbi sulla loro sicurezza: non devono essere trattate in modo paternalistico come ignoranti, perché non lo sono affatto: hanno soltanto bisogno di ricevere informazioni chiare per fare scelte consapevoli».
L’esitazione vaccinale in Italia
In Italia, comunque, si stima che appena l’1-2% delle famiglie opponga un rifiuto irremovibile alle vaccinazioni: una percentuale così bassa da non minacciare in alcun modo l’immunità di gruppo. Più in generale, invece, la cosiddetta esitazione vaccinale (o vaccine hesitancy) riguarda, secondo alcune indagini, circa 15% dei genitori di bambini con età inferiore a tre anni. «È con questa parte più numerosa e aperta alle ragioni della scienza e dell’esperienza che occorre attivare un dialogo. Scontrarsi con l’esigua minoranza degli antivaccinisti più irriducibili, o illudersi che le prove scientifiche possano far cambiare idea a un negazionista che per principio rifiuta ogni evidenza scientifica, è invece uno sforzo inutile, se non addirittura controproducente», afferma Tognotti.
I dati sulla campagna vaccinale anti-Covid-19
Tutto questo sarà cruciale anche nella campagna vaccinale contro la Covid-19: secondo un’indagine di Observa, infatti, i cittadini italiani che a fine gennaio avrebbero preferito rimandare la vaccinazione erano circa il 24%, mentre un altro 14% non aveva alcuna intenzione di vaccinarsi. Di questi ultimi, tuttavia, solo una ristretta minoranza, pari a circa il 2% della popolazione italiana, ha motivato la propria diffidenza verso i vaccini per la Covid-19 con il rifiuto di tutte le vaccinazioni in generale. Dal sondaggio emerge invece che l’esitanza di molte persone potrebbe essere superata offrendo loro maggiori informazioni sull’efficacia e sulla sicurezza dei vaccini contro il coronavirus; informazioni che però tre quarti degli italiani giudicano ancora «poco chiare e incomplete».
Dal linguaggio freddo della scienza alle esperienze positive
In questi anni, purtroppo, non sempre la comunità medico-scientifica ha saputo attivare i linguaggi e i canali di comunicazione più efficaci. «Alla retorica diretta e talvolta aggressiva degli antivaccinisti si è spesso risposto con il linguaggio freddo e austero della scienza, infarcito di statistiche impersonali e incomprensibili ai più. Sarebbe invece importante saper raccontare le esperienze positive delle tante persone che hanno tratto beneficio dai vaccini. Un ruolo importante potrebbe essere svolto dal personale sanitario dei servizi di vaccinazione, che ha la possibilità di instaurare un dialogo diretto con i genitori esitanti. Come dovrebbe fare anche il pediatra, che conosce la storia del bambino e può beneficiare di un prezioso rapporto di fiducia con i genitori», conclude Tognotti.