Il mercato del cibo italiano falso supera i 60 miliardi di euro. Il FoodAct vuole difendere e diffondere i prodotti originali del nostro Paese nel mondo
Qualche giorno fa in Expo si è tenuto il 2° Forum della Cucina Italiana, voluto dal Ministro Maurizio Martina e con la presenza dei Ministri Dario Franceschini “Sono qui più nel mio ruolo di Ministro della Cultura che del Turismo” e Stefania Giannini. Insieme a loro il Presidente dell’ICE Riccardo Monti e oltre 40 dei più famosi cuochi italiani. Obiettivo? Il FoodAct, un piano strutturato in dieci punti per fare sistema tra istituzioni e addetti ai lavori per promuovere il cibo del Bel Paese. Un’iniziativa molto importante che si interseca, e ne è parte, con l’insieme delle azioni che si stanno attivando per raggiungere l’obiettivo a cui attivamente lavora il vice Ministro Carlo Calenda e lo stesso Monti: portare entro il 2020 l’export dell’agroalimentare italiano a raggiungere i 50 miliardi di euro (oggi meno di 30).
I prodotti italian sounding: un mercato da 60 miliardi di euro
Obiettivo ambizioso ma non impossibile se si considera che, secondo i dati disponibili, esiste un mercato annuale di oltre 60 miliardi di euro di prodotti Italian sounding: l’ormai famigerato “parmisan” (che nulla ha a che vedere con Parma) ma anche tante mozzarelle, oli di oliva, pasta, insaccati e tanto altro. Prodotti che richiamano l’Italia e le sue capacità e tradizioni, ma che con l’Italia e la sua attenzione alla qualità hanno poco a che vedere. E’ una sfida che riguarda tutti, non solo per il valore delle cifre in gioco, ma per l’indotto che il cibo italiano genera su molti altri settori. I numeri per il nostro Paese e per l’economia sono quindi molto importanti, se non cruciali.
Io non sono un cuoco, per questo sono onorato di aver portato ad un tavolo così importante la mia semplice ricetta composta da dati, fatti e aneddoti.
Molti dei nostri consumatori non sono mai stati in Italia
Oggi ci sono 2.5 miliardi di consumatori digitali. Fra cinque anni (nel 2020 appunto) ci saranno ulteriori 800 milioni di nuovi utenti per poi arrivare, velocemente, a 5 miliardi e mezzo. Noi non abbiamo catene della GDO all’estero e troppo spesso dimentichiamo che molti dei nostri potenziali consumatori, compresi buyer e opinion leader, non sono mai stati in Italia (basti pensare che l’87% degli americani non ha il passaporto) e quindi quello che sanno di noi è sempre stato intermediato. Cosa si può fare? Ovviamente coinvolgere e portare qui da noi il maggior numero possibile di addetti ai lavori per fargli conoscere direttamente le nostre capacità e peculiarità (pensiamo all’esempio virtuoso della Design Week di Milano e proviamo a immaginare un caso simile adattato al food e questa è una delle nostre proposte anche per portare avanti l’eredità di ExpoMilano2015), ma anche investire gran parte delle energie sul digitale, sia perché da questo passeranno gran parte dei flussi economici (chi non si muove velocemente sul digitale è morto secondo Jeremy Rifkin), ma soprattutto perché grazie al digitale si può dialogare e, quindi, far conoscere i propri prodotti e venderli direttamente.
Il potere del digitale
Il digitale è molto più che un’opportunità: è una necessità sia per i grandi che per i piccoli. Parlando di dimensioni, lato soluzioni disponibili, esistono certamente colossi come Amazon, Google e Alibaba, ma ci sono enormi spazi anche per progetti di startup agli albori o ancora tutte da inventare. Non si possono ignorare né gli uni né gli altri. Rappresentativo è il racconto di Jack Ma, fondatore di Alibaba: “E’ venuto a trovarmi l’Ambasciatore americano in Cina per chiedere un aiuto a commercializzare le ciliegie nel suo paese; gli ho risposto che questo è il lavoro di Alibaba ma che, nel caso specifico, c’è un problema in quanto i cinesi non conoscono le ciliegie. Abbiamo deciso comunque di provarci e nel primo mese abbiamo venduto 300 tonnellate di ciliegie”. Pensiamo quando i cinesi conosceranno le ciliegie di Vignola!
Nei miei incontri e giri esplorativi ho anche scoperto che Watson di IBM non conosce le ricette italiane. Watson è un incredibile sistema cognitivo che raccoglie informazioni, impara a conoscerci e poi ci aiuta in tanti campi, anche in cucina con Watson Cognitive Cooking. Le potenzialità e gli usi di Watson sono infinite e per questo mi sono dato (sperando di non essere da solo) una missione: far conoscere a Watson tutte le ricette della cucina italiana, perché poi sarà lui a diffonderle nel mondo, consentendo con un click di inserire nel carrello tutti gli ingredienti necessari e originali per realizzarle al meglio.
Le startup della cucina
Accanto alle possibilità (se opportunamente seguite) offerte da questi colossi esistono però enormi spazi che giovani startup possono conquistare sia per il loro successo che per quello della piccola e media impresa agroalimentare italiana. L’intera filiera del food, dal campo fino alla tavola, sta per essere rivoluzionata da giovani startupper digitali. Idee e soluzioni che impattano sul modo in cui il cibo è prodotto, trasformato, distribuito, comunicato e che corrono a una velocità molto superiore a quella a cui sono abituate le grandi aziende o le imprese tradizionali. Riccardo Luna ha scritto: “La salvezza dell’Italia non passa solo dalle startup, ma le startup sono uno straordinario generatore di innovazione di cui tutti, corporation e pubblica amministrazione, possono giovare”. Il suo “solo” racconta molto ma, nel mondo del food, è indiscutibile il ruolo strategico delle startup.
Per l’Italia c’è l’opportunità di presidiare questo settore di innovazione, sia per la competitività del suo sistema agroalimentare, che come nuovo ecosistema che impatterà su una delle sfide più importanti dei prossimi anni: produrre cibo sostenibile e sano per tutti. E non è cosa da poco.
Marco Gualtieri