Capire come reimpiegare in modo efficiente gli scarti dell’industria alimentare, questo lo scopo di EcoFood, un progetto cofinanziato con fondi europei che coinvolge Università e aziende della filiera agroalimentare
Ci sono tanti casi in cui in Italia i sistemi non funzionano: le sinergie non si attivano, i progetti non vanno a buon fine o non partono neanche. Poi ci sono esempi virtuosi in cui ci sono molti pro e pochi contro. Immaginate un progetto che studia tecniche per riutilizzare gli scarti alimentari dell’industria, cofinanziato da soggetti da fondi europei e regionali e compartecipato da soggetti pubblici (centri di ricerca universitari) che collaborano fattivamente con grandi e medie imprese del territorio. Raggiungendo risultati concreti.
Sette milioni per rimettere gli scarti nel processo produttivo
Impossibile? Niente affatto. Si chiama EcoFood ed è un progetto, cofinanziato con fondi europei e costato in tutto circa 7 milioni di euro, che ha coinvolto la filiera agroalimentare della Regione Piemonte, le università (Politecnico e Università degli studi di Torino) e gli enti pubblici locali, per capire come reimpiegare in modo efficiente scarti alimentari dell’industria.
Nocciole, frutta, caffè, vino, riso sono alcuni dei settori alimentari toccati dagli studi: “Ma siamo ancora all’inizio: qualsiasi lavorazione genera scarti che potrebbero essere riutilizzati in altre produzioni; – racconta la docente presso il Dipartimento di Scienza Applicata e Tecnologia del Politecnico torinese Debora Fino – il problema è creare cordate di aziende di diverse aree che riescano a collaborare”. E continuare ad avere fondi per la ricerca, rari in Italia, si sa.
Da Ferrero alle riserie, tutte le materie da riutilizzare
Ferrero, Lavazza, Consorzio di tutela Barolo e Barbaresco Alba Langhe e Roero, Fontanafredda, Proplast, La Riseria sono solo alcune delle aziende coinvolte. Diversi, i sentieri percorsi: “Cercare di fare del packaging meno impattante usando scarti della linea produttiva, entrare nel prodotto e usarlo come fosse una miniera estraendo molecole e usandolo per il recupero energetico”.
Prima di tutto i ricercatori hanno creato un database di tutti gli scarti che ne indichi quantità, qualità, caratterizzazione degli elementi chimici e stagionalità: “Con questo database tutti i ricercatori potevano prendere i dati e incrociarli e cercare soluzioni”.
Packaging, dove va a finire lo spreco
Noci e cacao, per esempio, sono considerati ricchi di sostanze come lipidi, fosfolipidi, proteine, antiossidanti, lignina che possono essere estratti e in seguito impiegati come additivi e componenti fibrosi (cellulosa, emicellulosa o riempitivi per matrici polimeriche), come rinforzi per PLA e PP e come antiossidanti per la foto stabilizzazione del PP dei packaging.
Degli esempi concreti? “Con la lolla, la pellicola che copre il chicco riso abbiamo allestito una specie di cartuccia assorbente in cui l’acqua contaminata da metalli pesanti si ferma sulla lolla che è fatta di silicio. Con questa siamo riusciti a creare dei vetri con all’interno questi metalli che dunque non costituiscono più scarti e possono rientrare sul mercato”.
Con Fontanafredda i ricercatori hanno prodotto 6600 bottiglie di vino prive di solfiti artificiali, vendute poi in circuiti come Eataly: “Abbiamo aggiunto tannini naturali estratti dai noccioli dell’uva per sostituire anidride solforosa aggiunta”. Gli scarti, possono essere reimpiegati anche direttamente nella catena alimentare: “Abbiamo usato le fibre della cuticola delle nocciole per produrre delle tagliatelle. Esse, oltre ad esaltarne il sapore, danno un effetto probiotico, con aggiunta di fibra”. Le tagliatelle, però, non sono ancora in produzione perché non c’è ancora un pastificio nella filiera. Non a caso l’intento futuro del progetto è proprio coinvolgere il maggior numero di aziende di settori diversificati. Cercando prima, i fondi per proseguire.