Improvvisarsi celiaci, dalla spesa alla pizza, sta diventando una moda travolgente. Eppure meno dell’1% della popolazione è intollerante al glutine. Intanto, il mercato dei prodotti privi di quel complesso proteico va sempre più configurandosi come una bolla speculativa vicina all’esplosione
Il punto di partenza, perché senza capire bene come stanno le cose ogni chiacchiera è inutile, è il seguente: meno dell’1% della popolazione mondiale è intollerante al glutine. In Italia la patologia è stata diagnosticata a circa 160mila cittadini, forse qualcuno in più. Eppure improvvisarci celiaci sta diventando una moda travolgente. Piuttosto bizzarra se si pensa che ci si comporta come dei malati quando non lo si è. A tutta beffa di chi deve davvero evitare la gliadina, quella proteina del glutine presente nel grano, e altre simili presenti in cereali come orzo, frumento, avena, kamut, farro, triticale e segale.
La formula magica del marketing gluten-free
Gluten-free è ormai considerato un plus sotto il profilo del marketing. Una dicitura magica in grado di spingere le vendite di prodotti di ogni tipo. A breve lo applicheranno anche a pneumatici, porte blindate e passeggini. Sono lontani i tempi in cui i poveri celiaci, reietti gastronomici, andavano a fare la spesa scegliendo fra i pochi prodotti malriposti negli scaffaletti delle farmacie italiane con i buoni spesa forniti dalla Asl. Una prova? Boom del settore di quasi il 6% fra 2004 e 2007 e del 57% fra 2007 e 2011 secondo i dati Nielsen. Grazie soprattutto alla grande distribuzione che – alla pari di altre etichette per le allodole come sugar-free, bio, light, locale, organic, senza Ogm e numerose incontrollabili formule – ha spinto il segmento dei prodotti senza glutine alla generalità dei consumatori. I quali vanno dove il senso di colpa di porta, convinti che invece di andare a correre possa bastare una cacio e pepe gluten-free.
Non basta. Mense, ristoranti, pizzerie, locali: ormai portate e menu senza glutine si trovano ovunque, neanche fossimo vittime di uno strano incantesimo che ci manda tutti in diarrea cronica se inghiottiamo un paio di forchettate di spaghetti. Non che tutti i casi siano destituiti di fondamento. Anzi. L’aspetto divertente è che la moda, stando almeno ai dati, avrebbe innescato un aumento dell’attenzione tanto da spingere le persone ad approfondire certi sintomi che sottovalutavano da anni. In Italia, per esempio, fra 2007 e 2013 sono spuntate 10mila nuove diagnosi all’anno. Una crescita del 90%: o eravamo tutti celiaci – strano, di glutine ci siamo nutriti per centinaia di anni – o i medici avevano del tutto sottostimato questa patologia fino a che non è diventato figo ordinare una boscaiola per celiaci.
Una speculazione al capolinea?
Per fortuna la bolla sta per esplodere. Quell’ondata di ipersensibilità ambientale, contraddittoria ricerca dello pseudosalutare nell’universo dell’industriale e della raffinazione intensiva dovrà vedersela con un calo spaventoso. Lo racconta l’economista Vikram Mansharamani (Yale University e Harvard Kennedy School) su Fortune spiegando che, proprio come nei casi delle passate bolle speculative – da quella dei tulipani del ‘600 alle dot.com fino all’immobiliare – un livello così elevato di attenzione popolare non è ovviamente sostenibile. Questo è l’elemento che prima o poi verrà a mancare. In altre parole? Arriverà un altro irresistibile trend salutistico che spazzerà via il precedente restituendo ai celiaci la loro sacrosanta intolleranza.
Il caso degli Stati Uniti è emblematico. Una vera prova di lobotomia collettiva. Meno dell’1% della popolazione è celiaca, il 6% è ipersensibile o intollerante ma ben il 30% degli americani adulti sceglie di evitare il glutine. Semplicemente perché crede, sulla falsa convinzione di dietrologie e gigantesche bufale come quelle confezionate dal cardiologo William Davis una ventina d’anni fa (quello che definisce il grano moderno “un veleno cronico perfetto”) che sia più sano. La realtà? Spesso è l’esatto contrario: molti cibi gluten-free non sono affatto salutari per il 93% della popolazione che non abbia quei disturbi autoimmuni all’intestino tenue. Ad esempio, spiega Mansharamani, numerosi prodotti di quel genere utilizzano farina di riso (al centro di indagini sui livelli di arsenico) e in generale sono più calorici, sfoggiano più grassi, più sodio, più zuccheri e meno fibre. Senza contare il costo. In Italia, per esempio, il prezzo medio per una confezione di pasta o biscotti è di 3,56 euro.
“Eppure – sottolinea l’economista – prezzi alti continuano a non influenzare, esattamente come accade per le bolle economiche, una domanda che rimane elevata”. Negli Usa il mercato vale infatti 23 miliardi di dollari, è raddoppiato in quattro anni ed è guidato – lo dicevo sopra – dai soliti trucchetti del marketing. Basti pensare a Chobani, il produttore di yogurt greco, o a Green Giant, produttore di verdura, che hanno appiccicato etichette gluten-free anche sulle confezioni di prodotti che non hanno mai contenuto quel complesso proteico. Sì, siamo dalle parti delle mezze frodi. Che prima o poi verranno giù di botto, transumando nevrosi e falsi miti da una fissazione alimentare all’altra.