Intervista con Giovanni Salvatore, ricercatore all’ETH di Zurigo e creatore di un sensore biodegradabile da applicare ai cibi freschi
Il gap tra mondo accademico e innovazione è ancora lontano dall’essere colmato. Alcune storie di successo italiane dimostrano che la situazione sta migliorando, ma affinché il mondo della ricerca possa incontrarsi con quello industriale serve un contesto più dinamico. Abbiamo chiesto un’opinione a Giovanni Salvatore, ricercatore all’ETH di Zurigo che ha inventato il sensore biodegradabile di cui vi abbiamo parlato qualche tempo fa e che da poco tempo ha fondato con altri ricercatori la startup Optopharma. A tu per tu con l’ingegnere, abbiamo cercato di tracciare un quadro del contesto italiano e di cosa manca qui, rispetto all’estero.
L’intervista
Dottor Salvatore qual è stato il suo percorso accademico e professionale fino a oggi?
Dopo aver conseguito la laurea triennale a Torino, ho seguito in master in nanotecnologie organizzato a cavallo tra Svizzera, Italia e Francia. Dopo aver ultimato la tesi negli Stati Uniti, ho deciso di iniziare un dottorato in Svizzera, a Losanna. Durante il master, avevo trascorso sei mesi in Svizzera e trovandomi molto bene ho deciso di rimanere qui.
Riflettendo sull’ambito accademico svizzero e quello italiano e sulle relazioni tra accademia e startup in entrambi i Paesi, quali sono le sue considerazioni?
Non conosco benissimo il contesto attuale italiano, ho effettuato tutto il mio percorso all’estero e manco dall’Italia da 12 anni. La mia impressione è che all’estero sia il sistema accademico che il modo in cui si passa dalla ricerca in laboratorio all’impresa sia molto più dinamico e semplice. L’accademia fuori dall’Italia è molto più internazionale, i dipartimenti italiani sono popolati per lo più da persone che hanno studiato sempre nella stessa università. Se osserviamo i dipartimenti americani o svizzeri, abbiamo contesti molto più multiculturali.
Secondo lei, questa internazionalizzazione ha un ruolo importante nel trasferimento tecnologico dal laboratorio alla startup?
Il settore tecnologico è difficile, che necessita di innovazione continua ed è imprescindibile dallo scambio di idee. L’internazionalizzazione è quindi una leva fondamentale.
Per quanto riguarda il sensore biodegradabile a cui sta lavorando, ci sono sviluppi che ci vuole segnalare?
Siamo stati contattati da aziende che sono interessate allo sviluppo della tecnologia. La commercializzazione del dispositivo è comunque molto lontano. In laboratorio, ne abbiamo dimostrato il potenziale, ma bisogna indagare maggiormente l’interesse applicativo. Per poterlo industrializzare, i costi vanno abbattuti del 50% circa: se vogliamo integrare il sensore nell’imballaggio dei cibi dobbiamo tener conto del suo costo medio, che si attesta sui 10 centesimi circa.