In Sicilia la famiglia Drago produce farine di qualità, puntando su tradizione del grano antico e molitura a pietra. Una sfida alla crisi e al ritardo della normativa italiana ed europea
Hanno scritto di lui persino sul New York Times perché oltreoceano la storia della tumminìa, farina siciliana ad alto valore proteico che costituisce l’ingrediente di base del pane nero di Castelvetrano, ha suscitato curiosità. E lui della tumminìa è ormai il custode. Perché la vita di Filippo Drago e della sua famiglia è indissolubilmente legata alla Sicilia e, in particolare, a questa cittadina in provincia di Trapani. Non solo perché qui i Drago hanno fondato la loro azienda “Molini del Ponte”, ma anche perché da decenni sono loro a rifornire i concittadini di farina. Fino alla metà del secolo scorso, infatti, occorreva spesso andare a Palermo per comprare il necessario per impastare pane e pasta. Almeno fino a quando Francesco Paolo, il capostipite dei Drago, e i suoi fratelli non hanno deciso di dotare il paese di un mulino attrezzato del meglio che la tecnologia del tempo potesse offrire, cioè di un impianto a cilindri. Così, il loro mulino è nato accanto al ponte della ferrovia e da questo ha preso il nome.
Qualità e tradizione, la riscoperta dei grani antichi
L’idea: innovare ma nella tradizione
L’idea imprenditoriale dei Drago era quella di puntare sulle farine di qualità e di innovare, senza però dimenticare il valore della tradizione. Perciò Francesco Paolo, a metà degli anni Settanta, ha acquistato due mulini in pietra, affiancando alla moderna produzione quella più antica basata sulla molitura a pietra. E creando una struttura all’avanguardia sia in Sicilia sia nel resto d’Italia. Nel 2003, poi, le redini dell’azienda sono passate a Filippo, terza generazione della famiglia di mugnai, che ha attuato un completo rimodernamento dell’impianto e ha avviato il recupero dei cosiddetti grani antichi, cioè quella cinquantina di varietà autoctone di semi che l’agronomo Ugo de Cillis aveva custodito in un museo creato negli anni Trenta a Caltagirone. «I grani antichi – spiega Filippo – sono ricchi dal punto di vista nutritivo e organolettico, sono altamente digeribili e sono una fonte di vitamine, minerali e proteine. Inoltre, sono adatti anche a chi soffre di intolleranze alimentari perché contengono una quantità di glutine inferiore rispetto a quelli moderni e non provocano picchi glicemici. La molitura a pietra, poi, conserva intatto il germe del grano e, con esso, il valore nutritivo e gli aromi».
Cereali in crisi, ma la soluzione ci sarebbe
Il grano antico per la legge
Una scelta imprenditoriale saggia, dunque. Ma non per la legge. «Nel 1974 – continua a Filippo – è stata varata una legge che ha escluso dal registro di quelli utilizzabili i grani antichi, cancellando una cultura millenaria. Ancora oggi i nostri grani non fanno parte del registro italiano e nemmeno di quello dell’Unione europea. Eppure il futuro della cerealicoltura è proprio nei grani antichi». Il settore, infatti, è in crisi. Come lamenta lo stesso Filippo, «il grano viene pagato 25 centesimi al chilo, cioè quanto costava in lire 30 anni fa. Non mi sembra normale che per comprare un chilo di pane ci vogliano i soldi che servono per comprare 20 chili di grano». Secondo Filippo, quindi, la cosiddetta rivoluzione verde voluta dal legislatore con l’introduzione dei grani moderni, ad esempio il creso, ha fallito: «I contadini rischiano di guadagnare meno, lavorando di più. Per questo in Italia la produzione di cereali, uno dei simboli della dieta mediterranea, viene abbandonata: di 300mila ettari di superficie agricola a seminativi solo 190mila sono ancora coltivati». Al contrario, la coltivazione dei grani antichi potrebbe portare vantaggi: «Le varietà antiche sono quotate al triplo e la tumminìa ha un prezzo politico di 85 centesimi. Dal punto di vista dei consumatori, poi, queste varietà sono più salutari perché per coltivarle non servono né diserbanti né pesticidi. E anche la terra ringrazia perché non servono coltivazioni grandi e intensive per produrre la quantità di cereali sufficiente a garantire un reddito ai contadini».
Piccole eccellenze siciliane crescono
Cinquemila quintali l’anno
La “Molini del Ponte”, infatti, è una piccola impresa e produce cinquemila quintali l’anno, grazie al lavoro di dieci addetti tra interni ed esterni. «Da noi – precisa Filippo – il produttore di cereali viene pagato il giusto e subito. Mentre spesso la grande industria affama i coltivatori, salvo poi rivendere la farina a prezzi più che decuplicati sugli scaffali dei supermercati. Ma noi non temiamo le grandi aziende perché non puntiamo sulla quantità, ma sulla qualità estrema: i nostri prodotti sono un’eccellenza siciliana nel mondo». Un esempio di successo che sta generando emulazione. Anzi, i loro prodotti sono apprezzati al punto che stanno nascendo i primi “taroccamenti”: «Alcune farine – racconta Drago – vengono vendute come se fossero molite a pietra e invece sono prodotte da mulini industriali che viaggiano su produzioni di mille chilogrammi l’ora». E la legge, di nuovo, non aiuta: «La normativa sulle farine artigianali del 2001 non menziona quella macinata a pietra naturale. Per la legge, in pratica, non è vietata, semplicemente è come se non esistesse. Speriamo, però, che presto queste farine integrali e pure i grani antichi vengano riconosciuti, visto che ci sono. Anche perché i processi di selezione della materia prima, di produzione e di trasformazione sono sicuri e controllati: siamo un’impresa all’avanguardia dal punto di vista tecnologico».
Dal pane nero al cous cous
Dalla tumminìa al russello
Nel frattempo, comunque, quei grani al cento per cento siciliani dai quali si ricava una farina priva di coloranti, conservanti o ingredienti aggiunti, dalla tumminìa al russello, dal farro lungo al bidì, dal biancolilla al maiorca, sono stati riconosciuti da marchi come Eataly e Slow Food. La tumminìa, in particolare, è l’elemento basilare per la produzione del pane nero di Castelvetrano, che è stato appunto eletto presidio Slow Food. Da questo grano, che viene chiamato “marzuolo” perché viene seminato a marzo, poi mietuto e raccolto a giugno, e che ha una bassa resa, di circa dieci quintali per ettaro coltivato, deriva infatti la tipica farina scura molita a pietra naturale con cui s’impasta il pane nero. Ma, oltre alla specialità di Castelvetrano, l’azienda dei Drago ha puntato anche su un’altra tradizione trapanese, il cous cous, e collabora con la chef Bonetta dell’Oglio per proporre la rivisitazione di antiche ricette. I “Molini del ponte”, poi, producono farine dedicate, fatte in base a miscele personalizzate, e mettono a disposizione i loro mezzi per trasformare in farina e pane il grano che gli stessi clienti conferiscono al mulino, producendo i cosiddetti alimenti “a km sottozero”.