La fondatrice di Fourquette ci racconta come è nato questo progetto di ristorazione alternativa dove anziani e studenti si incontrano per cucinare piatti della tradizione locale
Baciata dalla fortuna, a ventisette anni ho scelto – ho potuto scegliere – di autodeterminarmi, abitare l’iperlocale e vivere la dimensione dello spazio glocal e del tempo puntiforme. Sostanzialmente, ho scelto di diventare imprenditrice in una città periferica e rurale, creando sviluppo economico attraverso la rivalutazione del passato, la condivisione del presente e la prefigurazione del futuro. In altre parole ancora, ho messo su un ristorantino atipico di cucina narrativa in cui “nonni”appassionati di cucina e studenti dell’alberghiero sperimentano la solidarietà intergenerazionale ai fornelli.
La mia mission di laureata in scienze politiche era realizzare un’impresa che avesse delle finalità anche sociali, che creasse valore condivisibile dalla comunità e che riuscisse a parlare alla pancia del cittadino di politica, di civica e di sostenibilità. “La politica fatta in cucina” fu poi soprannominata questa mission in cui la cucina diventava non solo il mezzo economico, ma anche lo strumento attraverso il quale arrivare alla pancia di tutti. Leggendo il Manifesto della Rural Social Innovation, mi sono subito chiesta se la risposta imprenditoriale che avevo dato al mio territorio fosse necessaria oltre che utile alla mia realizzazione umana e professionale. Avevo studiato il valore economico del capitale sociale e mi ero convinta – supportata anche dagli indici sulla qualità della vita pubblicati dal Sole24ore – che la mia città soffrisse la povertà di capitale sociale. E non solo, soffriva terribilmente la nostalgia di futuro.
Nella mia analisi gli anziani e i giovani, per quanto idealmente appartenenti a categorie opposte, erano i più colpiti dall’incapacità di prefigurare il proprio futuro vivendo immersi nel passato, i primi, o affogati nel presente, i secondi. Secondo il manifesto abbiamo delle responsabilità non solo nei confronti delle generazioni che verranno, ma anche di quelle che ci hanno preceduto e, in questi mesi, è proprio il cibo – nutrimento per il pianeta ed energia per la vita – il maggiore incaricato di questa responsabilità. Consumare il cibo in maniera responsabile è diventato per me non soltanto una questione legata al da dove o al quanto, ma anche al come. Responsabile è anche un nuovo modello di ristorazione che fa incontrare in cucina le persone, e che, attraverso la narrazione spontanea e autentica, fa nascere sentimenti di solidarietà, valorizza il locale e la tradizione, ma stimola anche la crescita e il miglioramento a qualunque età. Qualche anno fa consideravo la ristorazione l’abito che l’alimentazione indossa per far colpo sull’economia, quindi, è l’onda che ho scelto di cavalcare per seguire la mia mission.
Nella cucina di Fourquette (scritto alla francese, si legge categoricamente alla foggiana), il prototipo foggiano di ristorante di cucina narrativa, si pratica lo slow cooking, dal giovedì alla domenica Nonno Michele (79 anni), Nonna Anna (trentacinque anni da un pezzo) e Nonno Lino (ottant’anni passati), che si nutrono dell’adrenalina del rush-hour, e una decina di studenti scelti tra i corsi di cucina, pasticceria e sala dell’alberghiero cittadino s’incontrano durante le preparazioni di un menu che offre ai clienti piatti della cucina terraterra e piatti gourmet, la tradizione e l’innovazione, e poi diventano una brigata durante il servizio. La gerarchia, la disciplina e l’isteria non mancano come in qualunque altra cucina di ristorante, ma noi pratichiamo anche l’invecchiamento attivo, l’educazione informale e l’innovazione sociale. Se il prodotto diviene leva di una nuova dinamica comunitaria in grado di valorizzare il patrimonio immateriale, leggevo nel manifesto, l’agricoltura e, aggiungo, la ristorazione diventano un’opportunità di condivisione e trasmissione della cultura e della tradizione.
Questo è quello che sta cercando di fare Fork in progress – cook&social business, l’impresa nata con Principi Attivi nel 2012, che con Fourquette sperimenta come un ristorante possa produrre valore sociale, economico e culturale a partire da e per la comunità di appartenenza. A quattro mesi dall’apertura molti mi chiedono se lo stress dell’attività commerciale abbia intaccato l’entusiasmo di partenza, se la gente risponde bene alla nostra proposta e se sto diventando ricca. Io direi che stiamo diventando tutti ricchi di capitale “affettivo” che, intanto, ci fa sentire più forti nelle giornate desertiche e le tartarughe ninja in quelle affollatissime. Io non so quanti di quelli che tornano a mangiare da noi capiscano il valore di quello che sta succedendo in quell’angolo di via Le Orfane a Foggia, vedo però che restano imbambolati a guardare l’argento vivo dei nostri nonni e increduli di fronte alla nostra assoluta fede nel cambiamento. Qualche mese fa il mondo della ristorazione rideva sotto i baffi sentendomi parlare oppure mi definiva un’illusa perché era impensabile e, soprattutto, improduttivo mettere in una cucina ragazzetti e nonnetti e dar loro lo spazio e il tempo di essere loro stessi. Oggi posso dire col petto in fuori che non solo funziona, ma piace pure un sacco.