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Man made the cars to take us over the road
Man made the train to carry the heavy load
Man made electric light to take us out of the dark
Man made the boat for the water, like Noah made the ark
This is a man’s, man’s, man’s world

James Brown – It’s A Man’s, Man’s, Man’s World

Ascoltavo James Brown, genio esuberante e multiforme, capace di combinare gospel, rhythm and blues, soul, funk, rap e disco. Insomma uno che ha sempre messo insieme cose diverse. Sulle parole qui sopra, m’inchiodo.

Piano, James. Quando urli che l’uomo ha costruito le macchine, il treno, la luce elettrica, la barca, citi pure Noè, e ripeti più volte It’s a man’s world, che intendi, di preciso?

Chiedo a Google, che come risposta m’aggiunge una lista di domande. La prima: «Perché è chiamato “man’s world”?». E di seguito: «Quando James Brown cantava It’s a man’s world, si riferiva alle attività svolte da uomini aitanti come produrre macchine, treni e denaro».

“Uomini aitanti”. Un uomo aitante è un uomo che aiuta, vigoroso, risolutivo. Così il pensiero va al contesto storico della canzone, gli anni ’60. Lì il concetto di mascolinità aveva confini precisi, e in caso di dubbi era utile rimetterlo a posto. Le riflessioni su sesso, genere e orientamento sessuale non erano entrate nel discorso comune, e i pensieri non erano pronti a cercare nuove parole.

Cambio chiave di ricerca: scelgo “mascolinità”, ed ecco il responso di Google Immagini:

mascolinita google

Quadri del nostro tempo. Corpi scolpiti, tatuaggi, sguardi sostenuti, braccia conserte. E, per ampliare lo stereotipo, abiti da donna, acconciature vistose, riferimenti espliciti alla “mascolinità tossica”, espressione che indagheremo tra poco ma che lascia intuire il significato. E perfino del rosa (che, tra l’altro, ho scoperto da poco, fino al secolo scorso era un colore maschile; non solo nella pittura sacra, anche nel comune senso estetico, che pensava il rosa come un mix tra rosso e bianco – il sangue, super virile, e la purezza di spirito – e percepiva invece il blu delicato e grazioso).

Un tempo, certo, era tutto diverso.

L’eroico e il sacro

I libri di storia di rado cominciano quando cominciano gli esseri umani. Il mio cominciava con degli dei maschi che davano agli uomini potere sulle donne e sulla natura, milioni di guaritrici bruciate come “streghe” perché insegnavano metodi contraccettivi, il razzismo che giustificava il colonialismo, e le lingue romanze, che attribuiscono un genere pure a tavoli e sedie. 

(Gloria Steinem, Women: new portraits, introduzione alla mostra di Annie Leibovitz) 

Eccolo, il solito estremismo vetero-femminista.

Eppure, pensandoci, anche il mio libro di storia iniziava con qualcosa del genere. Credo iniziasse dalle abilità dell’uomo primitivo che poi si è ingegnato per sopravvivere, ha combattuto guerre, conquistato terre e organizzato civiltà. Imprese virili, che poi hanno scritto le leggi dei popoli.

L’uomo al centro, spesso per volontà di un Dio, che non si capisce bene perché dovrebbe avere un genere, ma che per i cattolici è addirittura Padre onnipotente, e che dal suo sguardo severo domina tutto il creato. D’altra parte, se i re maschi dominavano vaste porzioni di terra, comprensibile che un super maschio la dominasse tutta quanta. 

Al di là del puntiglio di chi vuole linguaggi inclusivi anche per i testi sacri (non è uno scherzo: i teologi episcopali americani propongono parole neutre come Ruler o Creator al posto di King, e addirittura di sostituire He con She), il punto è che la religione ha contribuito a fare cultura, dando istruzioni precise su maschile e femminile. E a forgiare una concezione del mondo un filo patriarcale (cfr. Il Post, Questioni di un certo genere, pag. 109).

E se dai testi sacri in giù, nelle fiabe, nella musica, nei film, nella pubblicità, le persone sono sempre state rappresentate o “maschili” o “femminili”, ecco i modelli che hanno dettato i modi di stare nel mondo: le bambine rispettose, emotive, diligenti, aggraziate; i bambini ingegnosi, vivaci, temerari, risoluti. 

Allora: sorvoliamo sul fastidio che tale schematismo può provocare, dopo tanto lavoro fatto nelle scuole, nelle istituzioni, nei centri culturali e sociali, per affermare la parità dei vari generi. Sorvoliamo anche sugli elementi di falsità che lo schematismo contiene: l’agricoltura, per dirne una, è state inventata dalle donne, non proprio negli ultimi decenni, e ancora oggi nel mondo è gestita in larga parte da donne; le figure femminili di cui sono piene la letteratura, la pittura, la musica, l’arte in genere, son tutt’altro che figurine belline sciocchine e smorfiose; le doti mostrate dalle donne nelle professioni vanno ben oltre accoglienza sensibilità e intelligenza emotiva, e includono profondità di visione e lungimiranza, solidità amministrativa, organizzazione, educazione/comunicazione, multidisciplinarietà e – attenzione! – problem solving.

È comunque innegabile che abbiamo interiorizzato l’assioma per cui ciò che è maschio non può essere femmina e ciò che è femmina non deve essere maschio. Almeno fino a qualche decennio fa, dunque, mascolinità era decidere, femminilità era obbedire.

Ma… di nuovo… andiamo piano. Mascolinità / femminilità. Sento un parallelismo zoppo: anche ammettendo un mondo binario, se di là c’è il femminile e di qua c’è il maschile, sostantivando ci saranno femminilità e maschilità. Perché allora mascolinità? Che cosa è mascolino

Serve ancora il dizionario. 

Mascolinità è il complementare di femminilità? 

Treccani:

Maschilità:l’essere maschio o maschile; complesso dei caratteri che sono, o sono ritenuti, tipici dell’uomo, in quanto maschio; virilità in senso generico.

Mascolinità: il complesso delle caratteristiche (aspetto fisico esterno, psicologia, atteggiamento e comportamento, gusti ecc.) che sono proprie dell’uomo in quanto si differenzia dalla donna, o che a lui tradizionalmente si attribuiscono: md’aspettodi modidi voce (spec. parlando di una donna); ostentarevantare la propria m. (parlando di un uomo).

Uhm… Se il diavolo è nei dettagli, illuminiamo le parentesi: “parlando di una donna” e “parlando di un uomo”. Quindi esiste una mascolinità riferibile a una donna? Scaviamo ancora. 

Cerco mascolino:

con riferimento a donne, con il significato del più comune maschile: lineamenti m.; atteggiamenti m.; in abbigliamento m.; un modo di camminare mascolino

A diradare le nebbie arriva una voce autorevole: D’Annunzio, in Forse che sì forse che no:

Dorothy Hamilton, con quell’accento strambo che dava qualcosa di buffo a ogni parola, accavalciando una gamba su l’altra mascolinamente e scotendo la cenere della sua sigaretta di tabacco bruno.

Par di vederla, quella donna robusta, autoritaria, virile. Una “virago”. 

Altra parola problematica. Dal latino virago, da vir, uomo, maschio: donna che sembra un uomo.


Questo può valere sia come complimento, sia come denigrazione. In un’ottica decisamente rétro, certi sentimenti positivi e qualità erano ritenuti principale appannaggio del maschio (come a esempio forza e coraggio), e trovarli in una donna significava riconoscerle un attributo straordinario: pensiamo alla virago che sventa la rapina disarmando il malvivente, alla virago delle forze dell’ordine che incute reverenza solo a vederla, o a un’attempata virago che porta su per sei rampe di scale quattro confezioni di bottiglie d’acqua. Quest’assimilazione al maschio può essere indotta analogamente da certi caratteri poco femminili dell’aspetto fisico – pensiamo alla virago baffuta e nerboruta – o della personalità – pensiamo alla direttrice autoritaria. (Una parola al giorno > virago)

Occhio, comunque, a lasciarsi prendere dall’immaginazione: la donna mascolina che prende le redini dell’impresa di famiglia, o che comanda a bacchetta un team di maschi, è un ruolo socialmente ancora “strano”. Come con le barzellette omofobe o xenofobe: magari sul momento fan sorridere, ma poi ti ci vergogni.

Mascolinita infog min

Quindi c’è una mascolinità femminile e una maschile?

A quanto pare, dentro il concetto di “mascolinità” si stanno formando due letture, entrambe capaci di sorprendere un po’.

La prima lettura ci dice che se esiste ciò che Goethe nel Faust definisce l’eterno femminino, ossia la femminilità nella sua essenza immutabile, e se esiste, sul lato opposto, la maschilità ancestrale, recondita, e se entrambe hanno un che d’indefinito, pare esista anche una forma stranamente combinata, amplificata, un po’ distorta, ancora meno chiaramente definibile, appunto la mascolinità. Insomma se procediamo lungo il binario maschio/femmina, distribuendo di qua e di là i valori della visione tradizionale, se continuiamo a pensare la mascolinità per contrasto rispetto alla femminilità, noi blocchiamo lo sguardo sugli stereotipi. Può rassicurare, sulle prime, ma è sterile e anacronistico.

Un’altra lettura ci dice che la mascolinità può avere due forme: una praticata da femmine che esibiscono tratti maschili, e una praticata da maschi che li esasperano, quei tratti.

Tra le prime, esistono nella storia prove secondo cui molte donne leader sarebbero state sanguinarie e bellicose più degli uomini. Uno studio del 2017 dell’università di Chicago, dal titolo Queen, dimostra che, partendo dal 15° secolo, le regine europee avevano il 38,8% di probabilità in più rispetto ai colleghi maschi di portare i propri paesi in guerra. Elisabetta I e Vittoria d’Inghilterra, Maria Teresa d’Austria,  Caterina la Grande di Russia, descritte non proprio come dei fiori delicati (James Hansen, Nota Diplomatica: Regine sanguinarie, 1 luglio 2022).

Quanto ai maschi che esasperano i tratti maschili, difficile scegliere tra i molti esempi illustri. Rispetto alle performance di tanti leader di casa nostra, di certo non sfigura l’ex premier britannico Boris Johnson, raggiungendo livelli stellari nell’arte di accaparrarsi consenso, durante un comizio a Henley, nel 2005, pare abbia promesso agli elettori maschi che dare il voto al suo partito avrebbe ingrandito i seni delle loro mogli. Leggenda? Fake? Chissà.

Una volta si usava la parola macho per indicare un uomo ostentatamente virile. Era la caricatura di un’indole passionale e risoluta. Ora il termine machismo è più associato al concetto di mascolinità tossica, espressione coniata negli anni ’80 dallo psicologo Sheperd Bliss per “l’insieme dei tratti regressivi usati per favorire il dominio, la svalutazione delle donne, l’omofobia e una violenza priva di ragione”. Quando un uomo se ne lascia imprigionare, si assottiglia la linea che separa gli episodi di ostentazione di forza e quelli di violenza fisica e psicologica. Ma non è stereotipo: è crimine.

Volere è potere?

È inutile che dici di no / Stavolta a compromessi non scendo 

Sei l’unico diritto che ho / Io non ti voglio, ti pretendo

Raf, Ti pretendo

Era il 1989: il cantautore Raf raccontava un romanticismo da vecchio manuale: la parte del maschio innamorato era vantare diritti, quella della donna era adempiere ai suoi doveri. 

Erano solo pochi anni che l’Italia aveva detto addio al delitto d’onore, e la parola consenso era ancora lontana dal significato che ora le attribuiamo. Un uomo pazzo d’amore poteva tutto, giustificato da quell’antico diritto di proprietà su cose e persone. Ce ne voleva, ancora, perché si trovassero le parole per descrivere quell’ingiustificato sopruso.

E in parte ce ne vuole ancora, se è del settembre 2023 la richiesta di assoluzione per l’uomo bengalese accusato di aver maltrattato la moglie. Secondo il pm di Brescia, le violenze sono state «il frutto di un impianto culturale, e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima, atteso che la disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura». Altro tentativo di normalizzare la disparità di genere e derubricare gli episodi di violenza a fatti che possono capitare in certe culture. Paola Di Nicola Travaglini, giudice penale e consigliera della Corte di Cassazione, ha commentato sulla Stampa:

«Se schiaffi e umiliazioni sono tradotti come liti familiari, l’atto linguistico consente di ritenere, in nome dello Stato, che nel contesto di coppia o domestico siano una modalità ordinaria di gestione dei conflitti tanto da legittimarli e renderli impuniti (…). Gli effetti di un linguaggio che non descrive il fatto, ma lo deforma e lo omette in base a stereotipi interiorizzati e invisibili produce effetti devastanti».

Un impianto culturale, che troviamo in tante espressioni artistiche, sia pur trasfigurato dalla passione amorosa. Ricordiamo l’urlo struggente di Cocciante: 

Margherita, Margherita, Margherita, adesso è mia

e persino Baglioni:  

Io ti odio, ti odio, ti odio / Ma perché sei tanto bella? / Ti odio

Perché non scompari / Perché non ti uccidi / E perché ti voglio tanto io (Quanto ti voglio)

E se pensiamo in inglese, solo per il titolo I want you troviamo antologie di brani, dai Beatles ai Savage Garden, dai Bon Jovi fino a Bob Dylan:

I wasn’t born to lose you / I want you, I want you / I want you so bad

dove il “non sono nato per perderti” dichiara l’indole competitiva, il traguardo come un diritto da pretendere, appunto, ma poi c’è quel “ti voglio così tanto” che, detto in inglese, I want you so bad, contiene almeno un grano di consapevolezza sulla sua demenzialità.

Dunque, anche senza riprendere il ragionamento linguistico sugli “operatori modali”, che abbiamo già incontrato con la parola potere, riflettiamo almeno sul fatto che confondere una volontà, un’intenzione, o anche solo un desiderio, con la logica possibilità di realizzarlo, e quindi con la necessità, per altre persone, di adeguarsene, è follia. 

E possiamo concludere che ci sono molti modi di essere maschi, che potremmo indagare i modelli che abbiamo sotto gli occhi per comprendere il mondo in cui viviamo, e che forse il concetto di mascolinità, e la parola stessa che lo definisce, possono essere archiviati tra le cose d’altri tempi.

O almeno, I have a dream.