Il musicista, produttore e direttore d’orchestra, recentemente a Sanremo insieme al duo Coma Cose, ha partecipato anche a Generazioni, il format di dialoghi intergenerazionali ideato dalla Milano Digital Week 2021
Esiste un’app in grado di scoprire, secondo la teoria dei sei gradi di separazione, in che modo due artisti, anche distanti anni luce uno dall’altro, possano essere collegati, attraverso cover, remix, produttori o musicisti in comune. Perfino i più impensabili. Ad esempio, se si cercasse una qualche correlazione fra Miles Davis e i Coma Cose, con tutta probabilità l’unica risposta possibile starebbe in un altro musicista: Vittorio Cosma.
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Tastierista, compositore, direttore d’orchestra e produttore discografico, Cosma con la sua band ha infatti aperto, nel 1987, tre concerti del tour di Miles in Italia, mentre solo qualche settimana fa era sul palco dell’Ariston a dirigere l’orchestra di Sanremo per i Coma Cose. “Dal punto di vista artistico, l’ultima edizione del festival è stata un’ottima fotografia del mondo reale della musica italiana“, commenta Vittorio Cosma a StartupItalia. “Al mainstream si è aggiunta la presenza del mondo cosiddetto indie, anche se indie ormai non lo è più. Non c’è stato il monopolio da parte dell’ecosistema dei talent”.
Sanremo 2021, cos’è cambiato
StartupItalia: Seppure a porte chiuse e tra mille limitazioni, alla fine il festival è stato realizzato anche durante la pandemia. È stata una scelta giusta?
Vittorio Cosma: «Credo sia stato un bel segno di rilancio e speranza realizzare anche quest’anno il festival. Naturalmente, è stata un’edizione stranissima: solitamente Sanremo è una specie di festa di paese impazzita sotto LSD. Radio, televisioni, case discografiche, cantanti, promoter e personaggi, anche quelli che non c’entrano nulla con la musica, trasformano ogni anno il festival in una gigantesca festa. Questa volta è stato l’opposto: l’Ariston deserto ha contribuito a dare l’impressione di eseguire una continua prova generale, mentre in albergo si mangiava in camera o separati nel salone. A volte, sembrava quasi di essere nell’Overlook Hotel di Shining».
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SI: Un Sanremo diverso e pieno di cambiamenti, anche a livello musicale.
VC: «Dal punto di vista artistico, l’edizione appena conclusa è stata un’ottima fotografia del mondo reale della musica italiana in questo momento. Oltre al mainstream, c’erano anche molti artisti provenienti dal mondo cosiddetto indie, anche se indie ormai non lo è più, e da altri contesti. Coma Cose, Willie Peyote, La Rappresentante di Lista, Colapesce e Dimartino, Madame: tutti artisti che riempiono club e teatri. Non c’è stato il monopolio da parte dell’ecosistema dei talent, ma gli autori hanno optato per un festival che raccontasse la vera canzone popolare italiana di un determinato periodo. In più, guardando ai senior presenti, è evidente come si sia avviato un cambio generazionale. Certo, occorrono dei correttivi: 26 cantanti in gara sono stati troppi anche per me che sono un addetto ai lavori».
Anche la musica si fa da remoto
SI: Se Sanremo è stata un’eccezione, per il resto il settore è fermo. Alla Milano Digital Week hai raccontato che, con molti dei tuoi progetti, continui a registrare separatamente: tutt’altro che una novità per chi fa musica. Oltre a questo aspetto, sta cambiando qualcos’altro a seguito della pandemia?
VC: «Come molti altri musicisti, già da anni lavoriamo da remoto, tanto con il gruppo insieme a Stewart Copeland, tanto con quello di Bjork o di Peter Gabriel. L’enorme problema che questa situazione ha generato è la mancanza del live, condizione lavorativa necessaria e vitale per gli artisti. Da questo punto di vista c’è un problema tecnologico a oggi insormontabile, ossia l’impossibilità di suonare in tempo reale, senza ritardi, che nella musica equivalgono a millisecondi, con più persone da diverse parti del mondo. Quando un domani questo accadrà, cambierà tutto».
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SI: Guardando invece dal punto di vista delle produzioni, la qualità sembra essere sempre di più merce rara. Data la tua esperienza nel campo, qual è la situazione?
VC: «Attualmente c’è un eccesso di produzione, intesa come cosmesi della musica, che la migliora, la lucida e gli aggiunge qualche elemento moderno di tendenza, senza però intervenire sulla sostanza. Sembra esserci una mancanza di urgenza e di lavoro sulla materia prima ed è quello che accade quando l’unico scopo è vendere ed essere al passo coi tempi. Bisogna anche avere il coraggio di stare zitti per qualche anno, per poi tornare a scrivere una canzone che abbia un senso: ci sono artisti che ancora lo fanno ed è lì che bisogna andare a cercare. Il produttore vero lavora infatti sulla scrittura: agisce sul testo, sugli accordi, sulla melodia, per migliorarli. È quello che cerco sempre di fare quando mi occupo delle produzioni».
Deproducers, tra musica e divulgazione scientifica
SI: Tornando al Vittorio Cosma musicista, uno dei progetti più particolari, sia sotto il lato artistico, sia per il nobile scopo, è il gruppo Deproducers. La musica al servizio della scienza e della ricerca, con il contributo di scienzati e filosofi. Come cambia l’approccio al concerto in questo caso?
VC: «In ogni contesto, cerco di delineare nel modo più chiaro possibile lo scopo e, di conseguenza, realizzarlo al meglio. Con i Deproducers l’aspetto unico sono la possibilità e la gioia di creare e suonare senza nessuna committenza. Dobbiamo semplicemente realizzare dei pezzi belli ed evocativi, associandoli ai concetti scientifici, profondi e fondamentali per la società. La musica diventa un cavallo di Troia, che aiuta la spettatore a comprendere meglio la spiegazione del pensiero scientifico. Alla fine dello spettacolo, il pubblico, oltre a portarsi a casa l’emozione del concerto, ha capito qualcosa in più sulla velocità della luce o sul perché sia fondamentale aiutare la ricerca scientifica».
L’infinito curriculum musicale di Vittorio Cosma
SI: A citare i nomi di tutti gli artisti con cui hai collaborato o avuto a che fare occorrerebbero giorni. Impossibile però non chiederti almeno due curiosità: la prima a proposito della tua collaborazione con Pino Daniele.
VC: «Per un musicista della mia generazione, lavorare con Pino Daniele era qualcosa di unico, poiché è stato il primo in Italia, negli anni ’80, a collaborare con i più grandi artisti internazionali. Da Wayne Shorter, Naná Vasconcelos, a Gato Barbieri, fino a Eric Clapton e molti altri. Essere scelto da lui è stato quindi un grande privilegio. Una caratteristica di Pino era la cura scrupolosa del lavoro: spesso, alle prove, interrompeva il batterista ancora prima che iniziasse il brano, poiché, secondo lui, non stava andando a tempo. Alla meticolosità, univa un istinto e un cuore straordinari, soprattutto in alcune situazioni nelle quali ci trovavamo insieme a suonare solo lui e io, voce, chitarra e pianoforte. Era commovente».
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SI: Nel 1987, invece, a soli 22 anni, hai aperto alcuni concerti del tour di Miles Davis in Italia. Lo hai conosciuto?
VC: «Con la nostra band, abbiamo fatto da spalla a Miles e il suo gruppo per tre concerti in Italia. La mia interazione con lui è stata fondamentalmente di due parole, quando, dopo avermi ascoltato suonare, una volta si è avvicinato e mi ha detto ‘Oh, motherfucker!’ Sono stato molto soddisfatto: significa che gli ero piaciuto!».