Il 9 maggio presentazione del volume Dall’aula all’ambiente di apprendimento. L’intervista a Giovanni Biondi, co-autore del libro e presidente dell’Indire
Immaginate per un attimo di trovarvi in una scuola dove non esiste la cattedra, dove i banchi non sono divisi uno ad uno o a ferro di cavallo ma sono disposti stile atelier per dipingere e lavorare in gruppo. Ora pensate ad un uno spazio relax in aula, a dei bagni fatti per sperimentare e apprendere i concetti di quantità, a degli attaccapanni ricavati da rami di albero. Ancora provate a immaginare una scuola accogliente, con uno spazio per parlare, per stare in silenzio, per giocare liberamente, magari anche con un giardino che accoglie. Un edificio che è usato anche la sera dall’intera comunità, uno spazio che diventa civic centre. Ecco la scuola del futuro. Attenzione: non un sogno ma un cantiere che l’Indire, l’istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa ha aperto attraverso un lavoro editoriale, Dall’aula all’ambiente di apprendimento, realizzato dal presidente Giovanni Biondi; da Samuele Borri, dirigente dell’area tecnologica dell’istituto e da Leonardo Tosi, ricercatore e chairman dell’Interactive Classroom Working Group di European Schholnet. Il volume viene presentato il 9 maggio alle 16.30 presso “Anicia Scuola” all’Istituto Galilei di Roma da Luigi Berlinguer e Roberto Maragliano, insieme agli autori Giovanni Biondi, Samuele Borri e Leonardo Tosi.
La scuola di villaggio
Il modo migliore per comprendere questa operazione, che non è solo editoriale ma ha una forte valenza progettuale, è quello di usare l’iconografia, di osservare bene il materiale fotografico e non solo usato in questa ricerca. Il primo spunto è un dipinto, riprodotto nel testo, di Giuseppe Costantini realizzato nel 1886 con il titolo “La scuola di villaggio”. Siamo nel periodo post unitario e quello che maggiormente colpisce in questo dipinto è oltre alla scarsa illuminazione degli ambienti (spesso ricavati in chiese o cascine) è l’assetto formale delle aule. Una foto riportata qualche pagina più in là raffigura un’aula del periodo fascista lo si intuisce dall’immagine di Mussolini appesa al muro: c’è la cattedra su un predellino, i banchi sono a tre, la mappa storica è di fronte ai ragazzi e alla parete oltre al duce c’è il crocifisso. Poco più in là, la lavagna d’ardesia. Se dovessimo fotografare molte aule nel 2017 ci accorgeremmo che la situazione non è cambiata molto: non c’è più il predellino ma la cattedra è ancora al centro; la lavagna d’ardesia resta magari accanto alla Lim e i banchi dei ragazzi sono ancora uno accanto all’altro di fronte al maestro.
Rivoluzionare il curriculo, non solo l’organizzazione
«Come aveva giustamente rilevato Maria Montessori, d’altronde, il problema della conformazione e della disposizione degli arredi scolastici è connaturato alle pratiche didattiche che si svolgono», cita Juri Meda esaminando l’evoluzione del banco. Ma il banco è solo il simbolo del fulcro del lavoro fatto con questo libro che scava tra i lasciti di maestri come Mario Lodi, Giuseppina Pizzigoni, Bruno Ciari per mettere in crisi un concetto: le materie non devono restare in classe ad aspettare gli studenti con i loro strumenti di sempre. «La rivoluzione da fare non può toccare – cita Biondi – solo la dimensione organizzativa della didattica ma deve anche inevitabilmente toccare il curriculo».
Per capire meglio questi concetti abbiamo intervistato il presidente dell’Indire Giovanni Biondi.
Oggi senza questa connessione tra trasformazione della scuola nei suoi fondamentali e progettazione architettonica si rischia, per usare le sue parole, di costruire edifici a norma, magari con un forte risparmio energetico ma pensati per ospitare la “solita scuola”?
«Gli enti locali tendono a risparmiare. Il modello tradizionale di scuola è quello che costa meno perché è fatto quasi come un accampamento romano. Se non si ha idea di un nuovo modello educativo si rischia di continuare a realizzare edifici pensando che la centralità sia la lezione e che l’aula sia la soluzione più adatta per questo tipo di apprendimento. Lo spazio è un terzo insegnante. Affinché un progettista possa dare delle soluzioni innovative e creative anche sugli arredi bisogna che abbia una vision, un’idea. Se lasciamo una scuola in mano ai soli architetti, loro pensano alle soluzioni energetiche e poco più».
E’ necessario allora coinvolgere architetti, insegnanti, pedagogisti ma anche bambini e genitori nel pensare a questa scuola nuova?
«Oggi c’è una forte reazione al cambiamento e un tentativo di arroccamento al passato che frena questa capacità di costruire una didattica nuova. Bisogna partire da uno stimolo e poi arricchire questa visione con le idee dei bambini, dei genitori, di coloro che partecipano al progetto. La scuola deve essere sempre più un civic centre, non può essere aperta solo la mattina e chiusa a mezzogiorno».
L’innovazione tecnologica ha aiutato questo processo?
«L’ambiente non cambia certo per l’ingresso di qualche strumento nuovo, anzi rafforza i suoi caratteri e la Lim potenzia la lezione frontale così come il computer diventa uno strumento di esercitazione dedicato a “compiti speciali”. I computer come le soluzioni architettoniche devono essere funzionali ad un’idea altrimenti rischiamo che la seconda A diventa un laboratorio di informatica ma resta sempre un’aula».
Nel libro riportate parecchie immagini di scuole all’estero ma anche molte fotografie delle scuole di Reggio Children o della Pestalozzi a Firenze e altro ancora. Non serve diventare esterofili per immaginate la scuola del futuro?
«Il modello di Maria Montessori e quello di Reggio Children sono i più conosciuti all’estero. Dobbiamo guardare al nostro passato, a chi ha dato le fondamenta della scuola italiana per costruire un nuovo modello».