Le sue nubi procurarono carestia in tutto il mondo. In India le pire non smettevano di bruciare lungo le sponde del fiume sacro, negli USA i coloni, per scappare dalla fame, iniziarono la corsa all’Ovest
Può un vulcano, solo con le sue ceneri e i suoi fumi, cambiare il clima del pianeta? Pompei ed Ercolano dimostrano la forza distruttiva dei vulcani anche a parecchi chilometri dalle caldere, ma influenzare persino la temperatura della Terra, lo sappiamo, è ben altra cosa. Eppure, in passato, tra le teorie più accreditate per l’estinzione dei dinosauri, prima che fosse rinvenuto il gigantesco – presunto – punto di impatto dell’asteroide, si pensava che l’eruzione di uno o più vulcani potesse aver reso il mondo un luogo parecchio inospitale. Nel 2010, l’eruzione dell’islandese Eyjafjöll procurò seri danni al commercio internazionale, costringendo gli aeroporti di tutta Europa a chiudere per settimane: le sue ceneri attraversarono l’Oceano arrivando persino negli USA. E non fu nemmeno l’eruzione più importante dei tempi moderni. Ce ne fu una, infatti, che per certi versi cambiò il mondo, arrivando ad alterare il clima: nel 1815, mentre nel cuore dell’Europa l’epopea di Napoleone si spegneva a Waterloo, da tutt’altra parte, in Indonesia, il Tambora scatenava la sua furia distruttiva.
L’eruzione del Tambora
L’esplosione che seguì segnò la storia del mondo intero ma, anzitutto, delle popolazioni autoctone di Tambora. Non sappiamo più nulla di quelle civiltà e solo di recente, grazie a una serie di spedizioni archeologiche, abbiamo scoperto che l’isoletta tropicale era abitata. Di quelle genti non è rimasto granché e la rapida avanzata della giungla non facilita certo gli scavi. Per darvi un’idea della potenza dell’esplosione, l’eruzione ha dimezzato l’altezza del vulcano, prima sui 4mila metri, oggi sui duemila (solo una cresta arriva a tremila).
L’anno senza estate
I primi a fare i conti con le nubi di Tambora furono gli indiani: i gas rilasciati nell’atmosfera bloccarono la stagione dei monsoni, portando prima un lungo periodo siccitoso e poi mesi di alluvioni. Seguì la più terribile epidemia di colera di quel secolo: le cronache raccontano di pire di cadaveri lungo il Gange, capaci di illuminare a giorno la notte. In Europa gli effetti si avranno solo nel 1816, quello che passerà alla storia come l’anno senza estate. Nel Vecchio continente abbiamo testimonianze che parlano di un cielo perennemente coperto da nubi scure e rossastre, con frequenti tempeste di fulmini, molti dei quali color cremisi.
Mary Shelley, che proprio durante una di queste tempeste scrisse il suo romanzo più famoso, Frankenstein, in vacanza in Svizzera, annotò sul suo diario: “Una pioggia quasi perenne ci ha confinato in casa, una notte abbiamo assistito alla più suggestiva tempesta di fulmini mai vista, il lago era tutto illuminato, poi è scesa l’oscurità più profonda. Il tuono risuonava terribile sopra le nostre teste e tra le tenebre”. Le culture marcirono, la popolazione contadina si riversò in massa nelle città. Nel continente americano, in cui nevicò a giugno e i campi gelarono in luglio, i coloni abbandonarono le proprie terre in cerca di fortuna, spingendosi all’interno: in pochi lo sanno, ma il Tambora fu la miccia che fece detonare la corsa all’Ovest, l’epopea del Far West.