Le buone parole hanno il potere di cambiare le cose e quelle che spende Ben detto, saggio sul linguaggio consapevole e rispettoso (lo pubblica Lab DFG), ce l’hanno ancora di più: in parte perché, appoggiandosi a evidenze scientifiche, chiariscono in maniera netta come la lingua influenza il modo in cui pensiamo e poi perché convincono sull’importanza di utilizzare le parole più positive, più accoglienti e generative per riuscire, sì, a valorizzare tutte le diversità delle persone ma, in fondo, anche per riuscire a valorizzare noi stessi e chi siamo per davvero. Ne parliamo con l’autrice, Alexa Pantanella, esperta di linguaggi inclusivi e fondatrice di Diversity&Inclusion Speaking, che punta a promuovere il linguaggio come opportunità di inclusione, attraverso progetti di ricerca e programmi di formazione e comunicazione.
Quanto siamo realmente consapevoli del fatto che le parole che usiamo hanno un’influenza estremamente importante sulla psiche e, anzi, in qualche modo la determinano?
L’aspetto della consapevolezza è centrale, nel senso che siamo, effettivamente, poco consapevoli del modo in cui usiamo le parole e degli effetti che producono. Ci insegnano e passiamo molto tempo a imparare il come usare il linguaggio – la grammatica, la morfologia, la sintassi, etc. – , ma non ci viene spiegato il cosa facciamo con il linguaggio. Nel corso dei decenni, diversi studi hanno mostrato l’impatto delle parole che usiamo sulle rappresentazioni della realtà che si formano nella nostra mente. Per esempio, uno studio di Boroditsky arriva a conclusioni piuttosto sorprendenti sugli effetti procurati dalle differenze di genere grammaticale tra una lingua e l’altra. In un esperimento è stato, per esempio, chiesto a persone di lingue diverse di nominare in modo istintivo gli aggettivi che associano al termine ponte. Ebbene, le persone di lingua spagnola citavano aggettivi come solido, affidabile, resistente; quelle di lingua tedesca, invece, qualità come armonioso, bello, elegante. Boroditsky dimostra che questa differenza è collegata al genere grammaticale del termine. In spagnolo, infatti, puente è di genere maschile, e dunque ha richiamato nelle persone l’idea di mascolinità introiettata: forza, controllo, resistenza. In tedesco brücke è, al contrario, femminile e ha richiamato spontanee associazioni a concetti di cura o legati alla dimensione estetica, che nella percezione comune sono, appunto, associati al femminile. Si tratta di una delle molteplici conferme del fatto che parole e pensiero sono fortemente connessi eppure, sì, pensiamo davvero poco a come usiamo il linguaggio.
A proposito, lei mette l’accento su un gap di genere, il Dream Gap, di cui ancora poco si parla nel nostro Paese, ma che è potentemente condizionato dal linguaggio quotidiano, quello a cui siamo più o meno tutti già esposti nei primissimi anni di vita. Questo linguaggio ha segnato la crescita di diverse generazioni.
Il Dream Gap è la distanza tra noi e i nostri sogni, tra quello che sogniamo per le nostre vite e quello che poi, in termini di studi e in seguito di professione, riusciamo a realizzare. In particolare, si è visto che il Dream Gap è particolarmente ampio nelle bambine che – più dei maschi – a un certo punto della loro esistenza cominciano a sognare meno in grande, a credere meno nelle capacità di realizzare i propri sogni. L’ampiezza del Dream Gap, che può già svilupparsi intorno ai 5/6 anni di vita per poi ampliarsi, è fortemente influenzata dagli stimoli che arrivano dal contesto: immagini, riferimenti e, appunto, frasi. Il linguaggio usato nel quotidiano gioca un ruolo chiave. Espressioni comunemente indirizzate alle bambine come Non è cosa per ragazze, Sembri un maschiaccio, Stai attenta non correre così contribuiscono a limitare le loro capacità proiettive, così come Fai vedere quanto sei forte o Piangi come una femminuccia sui maschi, poiché insistono su un paradigma di mascolinità rigida e unidirezionale.
Lei si sofferma molto sull’ageismo, una forma di discriminazione estremamente diffusa, ma sulla quale c’è ancora scarsa sensibilità. Puoi farci degli esempi di come ciascuno di noi la veicola?
L’ageismo è la discriminazione legata all’età: insieme a genere ed etnia, quello dell’età è uno degli aspetti che ci guida e condiziona nel processo di categorizzazione sociale delle persone. In linea generale, diamo a questo aspetto molta importanza, al punto di discriminare e, persino, di autodiscriminarci. Pensiamo a come ci esprimiamo verso chi è avanti negli anni: “Ci arrivassi io così pimpante alla tua età!”, oppure “Nonostante abbia superato i 50, ha ancora voglia di mettersi in gioco”. Che idea o stereotipo stiamo trasferendo delle persone più grandi? Probabilmente, che non hanno più energia, voglia di fare e dare, elementi che, peraltro, non sono confermati dalle ricerche. Nell’utilizzare queste espressioni non solo discriminiamo chi è già più grande, ma lasciamo che anche le persone considerate più giovani introiettino granelli di ageismo, abituandosi all’idea che anche loro, superata una certa soglia di età, non avranno più granché da offrire o ottenere. E poi c’è un ageismo che agisce anche verso le persone considerate più giovani: “È XX la persona responsabile del progetto? Quanti anni ha?”, oppure “È giovane, ma è professionale”. Espressioni che reiterano un potenziale stereotipo di minore credibilità in un ruolo o una più bassa aspettativa di preparazione verso le persone definite giovani.
Ci soffermiamo sempre sugli indubbi vantaggi che il linguaggio inclusivo ha nel fare sentire l’altro rispettato. Ha effetti anche per chi lo utilizza?
Certo. Proprio perché il linguaggio è connesso al nostro pensiero e influisce sulle associazioni che si aprono nella nostra mente, portare dei cambiamenti al nostro linguaggio arriva a modificare anche il nostro pensiero. Inoltre, il linguaggio è parte della nostra identità: scegliere e utilizzare alcune parole, piuttosto che altre, equivale ad affermare da che parte stiamo, con quali valori e visione del mondo ci identifichiamo.
Il linguaggio è duttile, plastico, cangiante, segue l’evoluzione adeguandosi ai cambiamenti sociali. Il linguaggio può essere, lui stesso, strumento di innovazione?
Il linguaggio vive una sorta di doppio ruolo: da un lato, poggia su usi, strutture, vocaboli che hanno una storia secolare e che sono fortemente connessi al nostro passato e alla nostra storia. Dall’altro, però, è uno strumento in continuo divenire, in grado di provocare o sostanziare il cambiamento. In questo periodo, per esempio, osserviamo in diverse lingue alcuni tentativi o sperimentazioni per cercare di evolvere dallo schema dei due generi tradizionali, maschile e femminile. Se queste sperimentazioni non stessero succedendo a livello del linguaggio, è probabile che molte persone non si porrebbero nemmeno la questione dei generi.
Nel suo libro, senza ricorrere ad asterischi o schwa, ha comunque puntato a un linguaggio che fosse più neutro e inclusivo possibile. Come ci si riesce, nella comunicazione verbale e scritta?
Con l’esercizio e l’allenamento. Se non ci sentiamo di inserire segni grafici, come l’asterisco e lo schwa, che al momento non garantiscono l’accessibilità a tutte le persone (pensiamo a chi usa lettori di schermo o ha forme di dislessia), la lingua offre molte altre possibilità. Ma dobbiamo allenarci nel cercarle e utilizzarle, interrompendo alcuni schematismi che ci impediscono di avere uno sguardo e uso più aperto del linguaggio.