Si trovano nel centro di Milano, perfettamente integrate tra altre belle case e appartamenti, immerse nella vita del quartiere, in connessione con le famiglie, gli abitanti, i negozi, gli uffici. Sono tre comunità della Fondazione Lighea, che ha deciso di prendersi cura delle persone con disagio psichico proprio in questi spazi-casa pensati per una decina di ospiti ciascuna, facendo dunque una scelta di totale inclusione del diverso: «Diciamo che è in forte contrapposizione al pregiudizio di allontanamento ed esclusione di chi vuole la persona con problemi psichici tenuta a distanza», dice il suo fondatore, lo psicologo e psicoterapeuta Giampietro Savuto, che con il suo staff dal 1985 ha dato vita a Lighea, ente no profit che oggi gestisce tre comunità terapeutiche nel cuore della città, un centro diurno e una rete di alloggi indipendenti, in convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale.
Incontriamo il dottor Savuto a ridosso della presentazione al Teatro Franco Parenti di un suo libro curioso e provocatorio, Almamatto, un matto al giorno, 365 tipi strani (+1) che hanno cambiato il mondo (Baldini + Castoldi), i cui proventi saranno impiegati per allargare ancora la rete di intervento della Fondazione Lighea.
Dottor Savuto, qual è il beneficio più grande che un malato trae dal vivere dentro la città, immerso nelle relazioni con i vicini e la vita di un intero quartiere?
Il beneficio della relazione, appunto. In queste case, si costruisce una sorta di rete famigliare, un punto di riferimento dove la persona è aiutata a dare vita a relazioni significative con gli altri, che aprono a future relazioni all’esterno delle case. Chi vive negli appartamenti è già integrato nel contesto sociale del suo spazio cittadino: l’obiettivo è il reinserimento delle persone nella collettività. Il nostro modello prevede che le persone vivano tre-quattro anni in queste case, per poi muoversi in altre dove si autogestiscono, con un’assistenza di circa due ore al giorno.
Cosa fanno, durante il giorno, gli ospiti di queste case?
C’è chi fa sport, chi dipinge, chi segue un corso di cucina. Per ciascuno costruiamo un progetto. La persona che sta male ha perso ogni progettualità su se stessa, ha smarrito il futuro, è apatica: dipendesse da lei, starebbe 24 ore su 24 senza fare nulla, a letto. Quel che cerchiamo di fare è risvegliare in loro il desiderio, puntare a farli rinascere come soggetti attivi. Dalla malattia non si guarisce: piuttosto si impara a convivere, a non farsene schiacciare, ma ogni tanto vediamo accadere anche dei miracoli.
Dica la verità: è stato facile innestare queste comunità in città? Il vicinato come ha reagito?
All’inizio non la recepiscono mai bene e no, non è mai stato facile. Quindici anni fa presi uno spazio nelle vicinanze del Palazzo di Giustizia, in un condomino in cui avevano lo studio diversi, affermati avvocati penalisti. L’amministratore, un giorno, venne a riferirmi che diversi di loro si erano lamentati. Facemmo una riunione tutti insieme e quando uno di questi prese la parola e con voce declamatoria disse “I suoi clienti disturbano i miei clienti”, adeguando il mio tono al suo gli risposi che i suoi clienti erano dei criminali, i miei solo dei depressi. Finì che ci permisero di restare lì. Al cospetto della follia, le persone hanno fantasie di violenza o fantasie di tipo sessuale che poi riflettono fuori e attribuiscono a chi soffre di disagio psichico.
Lei dice: i matti ci cambiano lo sguardo, ci mettono davanti ai nostri fantasmi, ci costringono a riflettere. È per questo che ne abbiamo paura?
Ne abbiamo paura perché, in fondo, abbiamo paura di diventare come loro. I matti ci mettono davanti alla nostra irrequietezza, alle nostre emozioni più forti e misteriose, alle nostre follie. Sono lì a indicarci che, se non fossimo così tanto ingabbiati nelle strutture che ci costruiamo, saremmo molto più volubili, mutevoli, incerti, molto più in movimento. Ma allora cosa rimane di stabile, se tutto è in movimento? Ecco, saperli lontani da noi, chiusi in uno spazio in qualche modo sotto controllo produce in noi il sollievo di credere che anche le nostre emozioni più forti siano sotto controllo. Noi, invece, abbiamo voluto condurli tra la gente, dove accadono le cose, in punti molto accesi della città, vicino a piazza Duomo, al Castello Sforzesco, in zona Fiera.
Questa strategia di intervento offre ai cittadini il beneficio di conoscere da vicino e in maniera corretta la malattia mentale superando, si spera, paure e pregiudizi. Anche voi operatori traete beneficio da questa modalità di cura?
Impariamo ad accettare l’altro per come è, con le sue diversità. E conoscendo le sue angosce, riconosciamo le nostre.
Lei ha scritto che nelle vostre comunità oggi arrivano giovani, ragazzi. Quando avete aperto, ospitavate trentacinque-quarantenni, adesso dei ventenni. Cosa è successo?
Le famiglie hanno imparato a reagire allo stigma che investe chi ha un parente con problemi mentali. In fondo, un handicap legato a una sindrome genetica è ricondotto al singolo, il problema psichico, invece, alla famiglia, ritenuta in qualche modo responsabile. Ecco, oggi le famiglie sono cresciute e riconoscono più facilmente il disagio mentale che colpisce una delle sue parti e chiedono aiuto.
Perché per voi anche le famiglie hanno bisogno di essere incluse.
Certamente. Pazienti, genitori, famigliari gestiscono l’AIEMm, Associazione per l’Informazione contro l’Emarginazione dei Malati mentali (secondo la Fondazione la sigla, se pronunciata all’inglese, come I Am, sta a dire Ci sono, esisto. La seconda emme sta a intendere mad. Sono matto. Ti faccio paura? Ci sono e sono matto. Non chiudermi fuori. Dammi una mano, ndr). Questa associazione di volontariato agisce per difendere i diritti dei malati mentali.
Il ricavato della vendita del libro Almamatto, un matto al giorno andrà a Lighea. Li userete per lanciare un nuovo progetto?
Creeremo a Milano un punto di primo intervento, una sorta di pronto soccorso per sostenere la persona nella gestione del momento acuto della crisi. Perché anche la crisi acuta racconta a noi operatori molto della sofferenza di chi la vive. Perciò non va silenziata e negata, ma accolta e interpretata.
Nel libro racconta le storie di Galileo Galilei, Virginia Wolf, Jim Morrison, Abramo Lincoln, Giovanna d’Arco, Jack London… Persone eccentriche, bizzarre o così poco allineate da essere considerate per i tempi dei pazzi; alcune fragili e sensibilissime, altre con veri e propri disturbi psichiatrici. Certamente tutte hanno realizzato cose straordinarie. Perché ha mescolato individui con vite, alla fine, tanto diverse?
Perché, in fondo si tratta di sfumature. Io stesso, rileggendomi, ho riconosciuto una parte di me in ciascuno di loro.