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Farsi chiamare avvocata, piuttosto che avvocato, penalizza, e parecchio: si viene percepite come meno autorevoli e forti, dunque, si ispira meno fiducia. Di più: si viene percepite come se si avesse una decina d’anni in meno di esperienza. Sono i risultati di uno studio, decisamente potente, della Fondazione Bruno Kessler di Trento a gelare quanti e quanti, in linea con le regole della grammatica italiana, scelgono di declinare le professioni in base al proprio genere. E che dunque, quando donne, si presentano appunto come avvocate. 

Nelle professioni prestigiose, i titoli sono al maschile

Lo studio, che è stato commissionato dal comitato Pari Opportunità dell’Ordine degli Avvocati di Rovereto, fotografa in maniera lampante le resistenze culturali che ancora circondano le professioniste che si affermano in campi sino a ieri sostanzialmente di dominio maschile. Perché, infatti, declinare al femminile la professione che si fa dovrebbe influenzare il modo in cui si viene valutate? E perché la declinazione al femminile dovrebbe fare sentire poco professionali e quella al maschile assolutamente affidabili? Ma soprattutto, perché se declinazioni di genere come infermiere e infermiera o maestro e maestra, ormai tranquillamente praticate, hanno pari impatto reputazionale, non vale lo stesso per avvocato e avvocata? Rispetto a quest’ultima suggestione, i ricercatori mettono in luce che due sono gli ambiti in cui il sentire sociale collettivo, con tutti i suoi stereotipi, fa sentire la sua influenza: quando la professione è prestigiosa e quando questa è più o meno legata a una dimensione di cura.

avvocata

«In base a queste due caratteristiche, professioni meno qualificate come cassiera, impiegata, operaia, segretaria sono tutte solitamente declinate al femminile e non è comune (unica eccezione forse il caso di  operaio) trovarle declinate al maschile per le donne; analogamente, professioni legate alla cura della persona, anche se di alta qualifica e prestigio, vengono solitamente declinate al femminile (infermiera, dottoressa, ostetrica, psicologa, etc.). Queste sono professioni dove, storicamente, la presenza femminile è stata significativa. Dove l’uso della declinazione femminile nel titolo professionale è molto più carente è nelle professioni con qualifiche alte, ma non legate alla cura della persona (con l’eccezione di professoressa). Quindi avvocata e, ancor più, ingegnera, perita, architetta sono grammaticalmente corretti, ma rari nell’uso pratico», commentano i due ricercatori e le due ricercatrici (così si presentano nello studio) incaricati.

Avvocato Maria Rossi o avvocata Maria Rossi: chi appare più affidabile

Continua il pool di ricerca della Fondazione Bruno Kessler: «Diversi studiosi e studiose della lingua hanno mostrato che attraverso il linguaggio si contribuisce a rafforzare precisi modelli culturali. L’oscuramento del femminile nel maschile non poggia su ragioni di tipo linguistico, ma è una consuetudine legata alla persistenza di usi stereotipati e a dinamiche di potere che nel tempo sono significativamente cambiate. Il caso dell’avvocatura è emblematico: in un ambiente dove le donne ora sono spesso la maggioranza, l’uso del termine al femminile per indicare una professionista rimane estremamente minoritario».

E, infatti, quando i ricercatori delle Fondazione hanno chiesto  “se avessi bisogno di una consulenza professionale per una questione legale, ti rivolgeresti con maggiore probabilità all’avvocata Maria Rossi o all’avvocato Maria Rossi?”, il campione considerato, composto da professionisti e professioniste di 16 ordini professionali differenti, ha risposto senza troppe esitazioni “all’avvocato Maria Rossi”, specificando in seguito che quest’ultima declinazione – ovvero al maschile – trasferisce un’idea di maggiore preparazione, competenza, rassicurazione. Ma chi paga in particolare la percezione negativa della declinazione femminile? Stando ai risultati dello studio sono le giovani avvocate con meno anni di esperienza e che non  presentano manifestazioni di qualità forti, come la qualifica di cassazionista o l’appartenenza a uno studio importante. 

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Le donne? Dicono no al femminile

La maggiore credibilità attribuita alla formula maschile è talmente introiettata che nello svolgere la professione, le avvocate che effettivamente si presentano con la declinazione al femminile sono appena il 15% del totale, come aveva già dimostrato una ricerca del 2021, sempre dell’Ordine degli Avvocati di Rovereto. Peraltro, quell’indagine aveva scoperto che spesso sono proprio le donne a non accettare la declinazione al femminile del proprio titolo professionale, perché convinte che assumere termini al maschile aiuti a conquistare uno status di maggior considerazione sociale. Dallo stesso studio, i ricercatori avevano anche rilevato una certa reticenza da parte di alcune professioniste a spendere il proprio titolo professionale al femminile motivata dal timore che l’utilizzo del femminile possa indurre gli uomini a prenderle meno sul serio quando non, addirittura, a prenderle in giro.

Soluzioni per voltare pagina

Sarebbe però sbagliato, sostengono i ricercatori, trarre la conclusione che il termine avvocata non debba essere usato o il suo uso non incentivato. «Il beneficio aggregato da un uso diffuso della declinazione di genere dei titoli professionali è sicuramente maggiore del costo imposto ai singoli individui. Si identifica quindi un problema di coordinamento in cui un comune utilizzo della corretta declinazione femminile potrebbe eliminare gli effetti negativi che gravano sulla netta minoranza che attualmente ne fa uso. Da un lato è necessario promuovere una maggior consapevolezza dell’importanza dell’uso delle forme femminili dei titoli professionali, partendo dal presupposto che non si tratta di una questione puramente formale, ma sostanziale, in quanto le parole creano la realtà, la descrivono e influenzano il modo in cui la comprendiamo. Dall’altro lato, potrebbe essere profittevole l’adozione coordinata di linee guida, standard e regolamenti per incentivare l’uso dei titoli professionali declinati al femminile».