Che cosa rende unica ciascuna generazione, distinguendola in maniera netta dalle altre? E cosa le fa sentire vicine, attente, pronte alla connessione reciproca? Di più, in che modo si possono attivare quelle osmosi e quell’esercizo di collaborazione tra le generazioni, appunto, che si sta candidando a diventare uno snodo cruciale della scena sociale e dello sviluppo economico? Ne parliamo con Diego Martone, presidente e fondatore di Demia, società di consulenza strategica e ricerche di mercato: Martone si occupa da più di trent’anni di ricerche demoscopiche e di marketing ed è ora autore del saggio Senza Età, come generazioni diverse coesistono e insieme creano valore (Egea).
Perché questa grande attenzione sulle generazioni? Certamente, il fatto-record che, grazie all’allungamento della vita, cinque generazioni adulte abitino la scena sociale fa il suo. Ma è sufficiente a spiegare il fatto che stanno diventando il centro di attenzione di diversi media?
A parte il dato che il tema generazionale è diventato una sorta di moda, corredata persino da programmi tv che mettono in contrapposizione persone nate in differenti periodi storici come i Boomer e i Millennial, diciamo che le generazioni rappresentano oggi un modo di leggere il mercato diverso da quello che è stato finora in voga, composto da target e segmenti. Si tratta di un modo qualificante, visto che nelle generazioni vengono identificati gruppi molto ampi di persone – diversi milioni di individui -, colti attraverso il proprio, specifico periodo di formazione, ovvero quel periodo che va dai dieci ai venti-ventidue anni in cui la persona si emancipa progressivamente dal perimetro famigliare per strutturare via via il proprio sistema di valori e di riferimenti culturali. La qual cosa, sul piano collettivo, rappresenta la formazione della coscienza di una generazione.
Ma, in fondo, cos’è a distinguerci in maniera rilevante dalla generazione che è venuta prima o da quella che arriva dopo la nostra?
Si tratta di un modo specifico di stare dentro le cose che accadono. Nella formazione della coscienza di una generazione, incide in maniera determinante l’aver assistito a eventi di forte impatto, specie se traumatici, e l’averli elaborati collettivamente, attraverso mezzi espressivi propri del periodo. Sintetizzando molto, diciamo che la Silent Generation (la generazione dei nati tra il 1928 e il 1945) ha vissuto una guerra mondiale e il lancio della prima bomba atomica; i Baby Boomers (i nati tra il 1946 e il 1964) il boom economico, il primo uomo sulla luna, ma anche l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy; la Generazione X (tra il 1965 e il 1980) è stata segnata da eventi come il rapimento Moro, gli anni di piombo, la morte in diretta televisiva del dramma di Vermicino. I Millennial (1981-1996) si sono trovati ad elaborare il lutto della scomparsa di Falcone e Borsellino, quello di Lady Diana, la caduta del muro di Berlino, l’attentato delle Torri Gemelle; la Generazione Zeta (1997-2012) ha vissuto sulla propria pelle la deflagrante novità del primo Presidente Nero degli Stati Uniti e l’insorgere di una crisi sanitaria planetaria come il Covid. Sia chiaro: tutti abbiamo vissuto la tragedia del Covid, ma i più giovani l’hanno impressa nel DNA e ciò cambia completamente la loro prospettiva. Dicevo, poi, che ciascuna generazione ha compiuto l’elaborazione di questi grandi fatti attraverso media peculiari: i Silent con la Radio, i Boomer con la televisione, la Generazione X con le tv commerciali e le radio libere, i Millennial con la prima Internet, la Generazione Z con Internet sugli smartphone.
Lei stesso, però, sostiene che oggi è molto più interessante lavorare sulle similitudini tra generazioni che sulle differenze.
Assolutamente, e non a caso nelle organizzazioni è diventato ormai cruciale costruire opportunità per fare interoperare queste generazioni, perché il risultato di fare cooperare le diversità non è una somma di fattori, ma un effetto moltiplicativo: assumo intenzionalmente il termine dall’informatica, dove interoperabilità è la capacità di un sistema di cooperare, appunto, e scambiare informazioni con altri sistemi. Per riuscirvi è importantissimo conoscere i tratti distintivi delle diverse generazioni e dare anche una lettura generazionale dei fatti: banalmente, se in un’organizzazione Boomer e Generazione X scrivono email, mentre Millennial e Generazione Z messaggiano con Whatsapp e Telegram, si deve trovare il modo perché non vadano dispersi i messaggi che gli uni e gli altri si scrivono per comunicare. Porto un altro esempio. Durante i miei speech, se fra chi ascolta ci sono Millennial e ragazzi della Generazione Z, è facile che abbiano il cellulare in mano, che il 50% di quello che guardano c’entri con quanto io sto dicendo e il 50% no: se io so che questo è un loro tratto identitario, riesco più facilmente a governare la frustrazione che potrebbe procurarmi la situazione. Allo stesso modo, se loro sapessero che il loro atteggiamento mi infastidisce, sono certo che vi metterebbero mano, così io potrei facilmente guardarli negli occhi mentre parlo.
Una risposta rapidissima: cosa crea osmosi tra le generazioni?
Il significato delle cose che si fanno insieme. Potrei dire: in un ambiente di lavoro la purpose aziendale; fuori, i valori, gli obiettivi comuni. Le differenze si annullano quando ci sono scopi più ampi e condivisi da raggiungere.
Detto questo, le incomprensioni tra generazioni sono una costante della storia umana. Lei stesso cita Aristotele: anche lui trovava modo di rilevare pubblicamente una certa inadeguatezza dei giovani. Perché ogni generazione coglie insufficienza in chi arriva dopo?
Perché siamo vittime di un bias cognitivo, il cosiddetto kids these days, ovvero la tendenza a sopravvalutare noi stessi all’età di quelli che stiamo giudicando. Si tratta di una sorta di appiattimento della memoria: dici che tu all’età di tuo figlio eri bravo, facevi cose belle, soprattutto ne facevi molte, ma dimentichi che tuo padre e tua madre si lamentavano proprio perché, al contrario, non facevi niente di tutto questo.
In copertina del suo saggio ha messo i cerchi olimpici. Perché?
Perché sono una splendida metafora di quanto ci siamo detti. Se li osservi da distanza ravvicinata, cogli che ogni cerchio è unico e diverso, ma se li guardi da lontano, ecco che afferri l’insieme delle parti, l’unione, il tutto, dunque l’incredibile forza del logo. Quell’intreccio, insomma, non è una mescola casuale, ma la rappresentazione di una costruzione fra le differenze, di un dialogo reciproco tra singole storie. Traslato più precisamente sul piano generazionale, io ci vedo la combinazione in chiave sinergica dei vissuti, delle esperienze, delle abilità di ognuna delle generazioni oggi sulla scena, in un disegno finale potentissimo.