Esiste un cartello per accorciare la vita dei prodotti di largo consumo? Qualcuno pensa di si. La chiamano obsolescenza programmata. E anche l’Unione Europea ha cominciato a muoversi.
Frigoriferi che smettono di funzionare all’improvviso, orologi – letteralmente – con le ore contate, tostapane che non scaldano più. Per non parlare degli smartphone. Semplici difetti dovuti all’usura? Per qualcuno, il termine corretto è un altro: obsolescenza programmata. Ovvero la “data di scadenza” assegnata a prodotti più o meno tecnologici in maniera da costringere i consumatori all’acquisto di un nuovo modello, anche quando quello vecchio potrebbe essere riparato. Se solo si trovassero i pezzi di ricambio.
Obsolescenza sì, obsolescenza no?
Considerata da molti alla stregua di una teoria complottista fino a qualche anno fa, il concetto di obsolescenza programmata ha in realtà una storia lunga, che arriva fino agli anni Venti, quando un gruppo formato dai più grandi produttori statunitensi ed europei di lampadine (noto sotto il nome di cartello Phoebus) si accordò a Ginevra per ridurne artificialmente la vita a mille ore, in modo da mantenere alta la produzione.
Leggi anche: L’obsolescenza programmata esiste. Questa startup francese ha una soluzione
A coniare l’espressione fu nel 1932 un agente immobiliare, Bernard London, che quell’anno pubblicò il terzo di tre saggi in cui proponeva l’accorciamento della vita dei prodotti come soluzione per uscire dalla Grande Depressione. Non solo. In sostanza, le industrie avrebbero potuto pianificare con maggior efficacia mettendo le fabbriche al riparo dai cambiamenti di gusti e abitudini di spesa dei consumatori.
Il cartello Phoebus si sciolse nel 1939, alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale. Ma, più di 80 anni dopo, sospetti si addensano su molti marchi accusati di vendere prodotti dalla durata limitata. L’elettronica aiuta, come nel caso delle cartucce per stampanti: secondo alcuni, grazie al chip interno invierebbero il segnale di esaurimento inchiostro ben prima del limite, bloccando il dispositivo.
L’Unione? Non ha forza
Un atteggiamento stigmatizzato dall’Unione Europea, anche se i meccanismi comunitari rendono l’intervento estremamente complesso. Il Parlamento, nel giugno 2017, approva una proposta di iniziativa dal titolo “Una vita utile più lunga per i prodotti: vantaggi per consumatori e imprese” (clicca qui). Tra i relatori, anche l’eurodeputato italiano Marco Zullo, del Movimento 5 Stelle.
“Ovviamente non si tratta di una legge – spiega Zullo a StartupItalia! – Quelle in Europa le fa la Commissione, che può emanare regolamenti e direttive. Ma è un sollecito a prendere posizione”. Purtroppo potrebbe arrivare fra diversi anni, precisa l’onorevole. “Le motivazioni che hanno spinto l’assemblea a chiedere un intervento sono di ordine ambientale ma anche economico: c’è tutta un’economia che ruota attorno alle riparazioni – prosegue – e crea posti di lavoro non delocalizzabili. Senza contare che una famiglia di 4 persone potrebbe risparmiare fino a 50mila euro nell’arco di una vita se solo gli elettrodomestici durassero di più”.
“Il punto è che Parlamento e Commissione hanno un atteggiamento antitetico – attacca Ugo Vallauri, co-fondatore di The Restart Project, organizzazione con sede a Londra che si occupa delle tematiche legate all’obsolescenza. “Se il Parlamento è favorevole, in Commissione e nei governi nazionali si respira un’aria diversa: le lobby fanno pressione, e non è un caso che i paesi più ostili a una regolamentazione siano Italia, UK e Germania. Quelli, cioè, dove il settore della produzione di elettrodomestici è più forte”. Una petizione per garantire la riparabilità dei prodotti (clicca qui per la versione italiana) è stata lanciata in questi paesi sulla piattaforma Change.org. Destinatari, i vertici di Bruxelles. Fino ad oggi nel nostro paese hanno firmato 1.700 persone.
Restart Parties: incontrarsi riparando gli oggetti di uso quotidiano
Restart Project è parta di una rete che tocca 12 paesi. L’organizzazione promuove eventi (“Repair Parties”) in cui riparatori esperti – ma non professionisti – aggiustano elettrodomestici che spesso non funzionano a causa di guasti banali, e insegnano come fare a chi è curioso. L’ultimo è stato organizzato a Milano nei giorni scorsi dalla costola milanese del progetto in collaborazione con Pc Officina. “E’ stato un successo, con una quindicina di partecipanti e più dell’80% dei prodotti riparati – racconta Savino Curci, responsabile dell’associazione – Tra questi ci sono tostapane, bistecchiere, radio e persino epilatori. Ripeteremo il 24 novembre a Cascina Cuccagna durante il festival di Giacimenti Urbani“. Non a caso: l’associazione omonima si occupa di riduzione dello spreco di risorse ed è partner dei restarters milanesi.
Serge Latouche, economista e teorico della “decrescita felice” ha messo in risalto nel suo lavoro gli aspetti peggiori dell’obsolescenza programmata. Tra cui quello dell’impatto ecologico: ogni anno centinaia di navi attraccano nei porti di alcuni dei paesi africani più poveri come Nigeria e Ghana per sversarvi rottami elettronici e computer ormai inservibili. Si calcola si tratti di 50 milioni di tonnellate ogni 12 mesi, l’equivalente di 1000 Titanic.
Leggi anche: RAEE, cioè i rifiuti elettronici: cosa sono e perché è bene riciclarli
Eppure, per ridurre di molto il flusso di rifiuti, basterebbe rendere disponibili i pezzi di ricambio e mettere in rete i manuali tecnici. The Restart project ha pensato a un contributo originale: per ogni intervento effettuato in questi anni ha raccolto una scheda che riassume le operazioni eseguite e le difficoltà affrontate dai tecnici. I file sono già ottomila, e raccolgono le indicazioni sugli ostacoli più comuni che si frappongono alla riparazione; in molti casi, si suppone, architettati ad arte. Un archivio di valore, a disposizione di chi può tradurlo in azioni concrete.