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La pandemia ha messo tutti a dura prova dal punto di vista psicologico: negli ultimi due anni lo stress, la depressione e le sofferenze mentali sono diventati più evidenti nella nostra quotidianità, soprattutto in alcune fasce d’età già di per sé delicate come l’adolescenza. 

Abbiamo così cominciato a interrogarci di più sulle fragilità della psiche e sulle conseguenze che queste possono comportare in ogni ambito, dalla vita privata al lavoro. 

Un ruolo importante di sensibilizzazione in questo senso è stato svolto anche dalla televisione nelle sue varie forme, che già prima dell’emergenza Covid aveva iniziato a trattare queste tematiche in modo diverso rispetto al passato. 

Sofferenza mentale in film e serie tv: l’evoluzione 

“Cinema e televisione possono diffondere la conoscenza e contribuire al superamento degli stereotipi. Negli ultimi tempi, per quanto riguarda la sofferenza mentale, le storie vengono raccontate in modo nuovo, più autentico ed efficace, mettendo in evidenza come ogni persona possa avere risorse da valorizzare”, spiega Chiara Da Ros, Psicoterapeuta e Psicologa del lavoro, che sottolinea come sia aumentata anche la sensibilità da parte delle aziende verso questo tema.

 “Dagli uffici delle risorse umane arriva una domanda crescente: si sente il bisogno di aumentare le competenze interne e creare una cultura aziendale inclusiva anche da questo punto di vista, attraverso corsi di formazione, incontri di sensibilizzazione ed individuazione di professionalità specifiche, come quella del mental champion, dedicate alla gestione dello stress e della depressione”. 

Dall’intrattabilità alla drammaticità 

Nel corso dei decenni film e serie tv hanno affrontato questo tema attraversando fasi diverse, che si intrecciano tuttora, all’interno di una progressiva evoluzione narrativa. “Per molto tempo è stato un argomento solo brevemente accennato: veniva lasciato nella penombra oppure se ne parlava con pudore, aprendo squarci occasionali, che venivano richiusi velocemente, quasi fosse spaventoso e traumatico, oltre che poco commerciale, mostrare questo tipo di malattie sullo schermo”.  

Qualcosa poi inizia a cambiare: “Queste storie sono messe al centro e i personaggi che le incarnano diventano protagonisti. La sofferenza psichica, però, viene trattata mostrandone ogni sfaccettatura”. 

Un esempio relativamente recente è quello di “MrBeaver”, film del 2011 della regista Jodie Foster: Walter Black, amministratore delegato di una compagnia di giocattoli, soffre di una forma acuta di depressione, che lo porta all’allontanamento dalla famiglia, al quasi fallimento dell’azienda ereditata dal padre e a vari tentativi di suicidio. “In questo tipo di narrazione il disagio mentale sembra non lasciare scampo alle persone e si insiste su quanta sofferenza fisica, psicologica e sociale esso possa comportare”.  

Il racconto si fa più autentico 

Una nuova fase inizia “quando film e serie tv cominciano quasi a normalizzare la sofferenza mentale, mostrandola nelle sue luci ed ombre, senza una caratterizzazione esasperata al negativo”. Sono tantissimi i casi che rientrano in questa tipologia di narrazione, ma il capostipite può essere considerato Rain Man – L’uomo della pioggia, con protagonisti Tom Cruise e Dustin Hoffman, che segna una pietra miliare già nel lontano 1988: questa pellicola, vincitrice di quattro premi Oscar, racconta la riscoperta del rapporto tra due fratelli, Charlie e Raymond, quest’ultimo con disturbi dello spetto autistico.

Così A Beautiful Mind” (2001) narra la storia del genio matematico John Nash, che ha una forma di schizofrenia, mentre “Mr. Jones” (1993) mostra la potenza dell’amore tra una dottoressa e il suo paziente, interpretato da Richard Gere, mettendo in luce la straordinaria complessità di chi ha un disturbo affettivo bipolare. 

Storia d’amore è anche quella che nasce tra Pat, anche lui con sindrome bipolare, e Tiffany nel film “Il lato positivo” (2012): il protagonista, che ha il volto di Bradley Cooper, intreccia una relazione sempre più stretta con la misteriosa giovane donna, anche lei un po’ problematica, interpretata da Jennifer Lawrence. Nasce così un rapporto in grado di suscitare nello spettatore emozioni e momenti di profondo romanticismo. 

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Dall’amore all’amicizia, altrettanto coinvolgente è la storia delle protagoniste deLa pazza gioia”, film del 2016 diretto da Paolo Virzì con Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti nel ruolo rispettivamente di Beatrice e Donatella. Affette da disturbi mentali, scappano dalla comunità in cui sono ospiti: durante la fuga si intrecciano dolore ed allegria, lacrime e risate, sofferenza e grande vitalità.

Arrivando a tempi recentissimi, proprio durante la pandemia (2020) è uscita la serie tv made in Italy “Mental”, una co-produzione tra Rai Fiction e Stand by me: “Di puntata in puntata si seguono le storie di un gruppo di adolescenti in cura presso una clinica psichiatrico, scoprendo le diverse sfumature della malattia attraverso una rappresentazione abbastanza fedele alla realtà”. Basata sul format finlandese Sekasin, la sceneggiatura è stata scritta grazie alla consulenza scientifica di Paola De Rose, medico specialista in neuropsichiatria infantile presso lOspedale pediatrico Bambin Gesù.

Sofferenza mentale e inclusione: la nuova fase

Dal realismo all’inclusione: “In questi ultimi anni sono nati film e serie tv che segnano un ulteriore passo avanti”, evidenzia Da Ros. 

Una fase nuova, quasi rivoluzionaria, ben rappresentata dal successo di “The Good Doctor”, serie tv americana del 2017, basata sull’omonima produzione sudcoreana, di cui in Italia sta andando in onda la quinta stagione su Rai Due. Una storia che appassiona, grazie al protagonista, Shaun Murphy, giovane medico specializzando in chirurgia con disturbi dello spettro autistico e Sindrome del Savant: una condizione rara, ma straordinaria, per cui la persona con disabilità cognitiva, anche grave, presenta tuttavia capacità al di sopra della media e talenti eccezionali. In questo caso, per esempio, l’incredibile memoria fotografica e la capacità di notare dettagli e cambiamenti anche minimi. La svolta rappresentata da “The Good Doctor” è chiara fin dalla prima puntata, quando il mentore di Shaun Murphy, il dottor Aaron Glassman, convince il San Jose St. Bonaventure Hospital, nella California del Nord, ad assumere questo giovane super dotato: “The Good Doctor mostra qual è il vero senso dell’inclusività, che non significa solo comprendere e aiutare la persona che ha delle fragilità, ma vuol dire soprattutto trattarla alla pari, valorizzandola nella sua diversità e dandole la possibilità di esprimere al meglio le sue risorse”.

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Un vero messaggio di inclusività emerge anche dal film “Marilyn ha gli occhi neri” (2021), diretto da Simone Godano. Clara (Miriam Leone) e Diego (Stefano Accorsi) si incontrano in un centro diurno per persone con disturbi comportamentali e vengono incaricati di gestire un ristorante, senza creare conflitti con gli altri pazienti. Scopriranno che, collaborando, possono raggiungere ottimi risultati e anche innamorarsi l’uno dell’altra.

“Questa pellicola da un lato ci mostra ancora una volta in modo realistico il disagio mentale, con le sue fatiche e contraddizioni. C’è poesia nella sofferenza psichica, ma ci sono anche tante cadute”, sottolinea ancora la psicoterapeuta Da Ros. “Dall’altro lato, attraverso la formula del ristorante gestito dai protagonisti, ci parla della convivenza possibile tra due mondi, apparente normalità e disagio mentale, che possono interagire e che hanno dei punti in comune, pur nella loro diversità. “Invece che spaventarvi, lasciate che laltro, lestraneo, il matto vi coinvolga in unesperienza irripetibile, perché forse il matto è più vicino di quanto crediate”, si dice nel film. Fino a poco tempo queste erano considerazioni da specialisti, ora le ritroviamo allinterno di un film”. 

Il messaggio finale (per tutti)? “La potenza curativa dell’amore, sia quello che Clara e Diego ricevono dagli altri, sia quello che nasce all’interno della coppia, e l’importanza dell’accettazione di sé: sono le nostre peculiarità a renderci unici e l’autoindulgenza ha un potere liberatorio: bisogna imparare a mostrarsi per quello che si è ed abbracciare le proprie differenze”. Insomma, ci si può sentire Marilyn anche con gli occhi neri.

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