Nella “città delle distanze”, concezione tipica di tante metropoli contemporanee, ogni quartiere è destinato a una funzione ben precisa: lavoro, residenzialità, divertimento, shopping. Sono le persone a spostarsi nello spazio per soddisfare i loro bisogni. Al contrario, nella “società del tutto a/da casa”, un modello che la pandemia ci ha costretto a sperimentare, si resta all’interno delle mura domestiche e si fa (quasi) tutto grazie al supporto della tecnologia: televisita con il medico, smartworking, videochiamate a parenti e amici, acquisti online, spesa a domicilio e food delivery.
Due stili di vita opposti, entrambi estremi, in mezzo ai quali si colloca la “città dei 15 minuti” o, meglio ancora, “della prossimità abitabile”, come la definisce Ezio Manzini, professore onorario al Politecnico di Milano ed esperto di design per la sostenibilità, nel suo libro “Abitare la prossimità – Idee per la città dei 15 minuti” (Ed. Egea). Un dibattito che era già in corso prima del Covid-19, ma che negli ultimi mesi è diventato ancora più importante. Ora più che mai serve una riflessione approfondita sul futuro a misura d’uomo che possiamo costruire, nel segno dell’impegno civico e dell’abitare sostenibile, anche con il supporto delle nuove tecnologie.
Professor Manzini, perché “città dei 15 minuti” o “della prossimità abitabile”?
“La prima definizione è molto efficace nel descrivere il concetto: un luogo in cui, nel raggio di pochi chilometri e quindi in pochi minuti, si può trovare tutto ciò di cui si ha bisogno nella vita quotidiana, dai servizi al commercio e al lavoro, con conseguente riduzione dell’inquinamento atmosferico e miglioramento della qualità di vita. Il rischio però è quello di concentrarsi soprattutto sull’aspetto funzionale: il concetto di prossimità abitabile, invece, sottolinea bene la vicinanza e la ricchezza delle relazioni tra le persone, in contrasto con la solitudine endemica delle metropoli”.
Come sono organizzate attualmente le nostre città?
“Siamo abituati a uno schema di zone urbane che assolvono a una specifica funzione, in cui sono le persone a muoversi per ricucire le distanze. Un esempio evidente sono i quartieri dormitorio, in cui si torna la sera, dopo il lavoro, solo per dormire. Il mattino seguente si esce presto, senza instaurare nessun tipo di rapporto con chi si ha vicino. Una prossimità, in questo caso, desertificata”.
Tanti capoluoghi di provincia italiani, però, vantano un’alta qualità della vita.
“In tanti centri di dimensioni medie e piccole la vicinanza e le relazioni non mancano. Spesso è un’eredità del passato, quando tutte le città erano di prossimità, dato che ci si muoveva solo a piedi o in carrozza. Poi la modernità ha portato trasporti di massa e telecomunicazioni. E’ importante però stimolare una forte presa di coscienza per far sì che questo patrimonio non vada perduto”.
Non esistono città modello, però in Europa ci sono esempi concreti che potrebbero essere fonte di ispirazione: quali?
“Nel 2020 la ville du quart’heure è stata al centro della campagna elettorale del sindaco di Parigi Anne Hidalgo, che ha proposto un programma basato su nuove piste ciclabili, eliminazione di molti parcheggi su strada, spazi per uffici e coworking, uso di infrastrutture ed edifici al di fuori dell’orario standard, supporto ai negozi di vicinato, creazione di piccoli parchi nei cortili delle scuole a disposizione della popolazione locale oltre l’orario scolastico”.
Barcellona ha invece creato le Superilles.
“Sono stati individuati dei macro-isolati, sul cui perimetro corrono le strade per il trasporto veloce e le reti pubbliche, mentre le vie interne permettono solo una circolazione lenta, privilegiando la mobilità pedonale e ciclistica. Nei prossimi anni il modello sarà progressivamente ampliato con la partecipazione dei cittadini, creando piazze di quartiere e ulteriori spazi verdi”.
Milano come si colloca rispetto a questi esempi?
“A Milano ci sono varie aree che nel tempo si sono legate a una singola funzione: penso alla movida del quartiere Ticinese, ai tanti uffici e negozi del centro storico, ai dormitori delle periferie. C’è però una fascia di quartieri tutt’attorno al centro in cui si ritrova una dimensione di prossimità abitativa, caratterizzata tra l’altro da un grande fermento sociale”.
Un cambiamento che arriva allo stesso tempo dal basso, dalla società, e dall’alto, dalle istituzioni?
“L’amministrazione comunale sta sostenendo le iniziative dei cittadini con varie azioni: dal supporto ai negozi di prossimità, che sono anche presidi sociali, al sostegno per la nascita di coworking. Mentre si lavora a distanza per la propria azienda, perché non ritrovarsi con altri lavoratori in un ufficio condiviso sotto casa? Penso anche alle iniziative di riqualificazione urbana, tra cui Manifatture Milano, importante progetto di recupero dell’ex Manifattura Tabacchi in zona Bicocca. C’è poi il progetto denominato “WeMi”, Welfare Milano: è stata creata una rete di spazi nei bar o in altri luoghi già frequentati dagli abitanti dei quartieri per facilitare l’accesso ai servizi di welfare in tutta la città”.
I critici della “città dei 15 minuti” sottolineano però il rischio di una chiusura.
“E’ fondamentale l’intreccio tra le reti corte, quelle legate alla prossimità, e le reti lunghe, basate su scambi di respiro internazionale. La città dei 15 minuti è caratterizzata da apertura, dinamismo, cosmopolitismo, ricchezza di stimoli culturali e opportunità economiche. Non stiamo parlando della città dei borghi e dei villaggi, legata soprattutto all’identità territoriale. Nella città della prossimità abitabile l’identità della comunità si forma attorno ai progetti da realizzare insieme, grazie a un tessuto di relazioni locali e alla collaborazione tra cittadini ed enti pubblici”.
Lei è presidente di DESIS, rete internazionale di scuole di design attive nel campo del design per l’innovazione sociale verso la sostenibilità, con base nel Dipartimento di Design del Politecnico di Milano. Quali sono le sfide su cui vi state concentrando?
“Siamo un gruppo di ricercatori che indagano su come il design possa supportare e innescare la transizione verso la sostenibilità ambientale e l’innovazione sociale, combinando creatività e visione, a supporto delle istituzioni e degli altri soggetti coinvolti nei cambiamenti, non solo in ambito locale, ma anche in prospettiva globale. La stessa pandemia è stata, purtroppo, un gigantesco esperimento sociale che avrà implicazioni sulla nostra vita per molto tempo. Una delle sfide più importanti è anche quella del riequilibrio tra povertà e ricchezza del mondo, con attenzione agli strati più fragili della popolazione. Vogliamo formare e supportare nuove generazioni di designer che abbiano a cuore questi temi”.