Nel 2030 il 70% della popolazione mondiale vivrà nelle città. Che impatto avrà questa tendenza globale sul pianeta? «Senza una visione strategica avremo moltissimi problemi da gestire. Ma i sindaci potranno fare la differenza». StartupItalia ha incontrato a New York, presso la sede delle Nazioni Unite, Edlam Yemeru, direttrice del centro ricerche di UN Habitat.
“Nel 2030 il 70% della popolazione mondiale vivrà nelle città. Le sfide da affrontare sono enormi”
Oggi 4,4 miliardi di persone, ovvero il 54% della popolazione mondiale, vive in città. Secondo le proiezioni fornite da UN Habitat, entro il 2030 la percentuale raggiungerà il 70%. «Non abbiamo più tempo, dobbiamo agire tutti insieme come stiamo facendo per il clima. Invece la questione degli insediamenti urbani è trattata spesso marginalmente nelle agende di tanti Paesi» esordisce così Edlam Yemeru direttrice Data and Research per UN Habitat. La incontriamo nel suo ufficio presso le Nazioni Unite a New York a margine del forum SDG11 (Sustainable Development Goals). UN Habitat è un’agenzia delle Nazioni Unite fondata nel 1977 con l’obiettivo di favorire un’urbanizzazione socialmente ed ambientalmente sostenibile. Per questo motivo sono stati fissati undici obiettivi da raggiungere entro il 2030 come garantire l’accessibilità ad un’abitazione adeguata, servizi pubblici di trasporto, spazi verdi e ridurre le baraccopoli. «Purtroppo il 2030 si avvicina e le notizie non sono buone» ammette Edlam Yemeru.
“Non abbiamo più tempo, dobbiamo agire tutti insieme come stiamo facendo per il clima”
Città sempre più popolate
Circa 1,6 miliardi di persone vivono in abitazioni non adeguate. Solo nel 2022, anche a seguito della pandemia, settantacinque milioni di persone in più vivono situazioni di estrema povertà nelle città. 3,3 miliardi di persone soffrono a causa degli impatti dei cambiamenti climatici. Sempre nel 2022, cento milioni di persone hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni a causa di mancanza di cibo, guerre, disastri ambientali. Attualmente sono 318 milioni i senzatetto nelle città del mondo, un dato in costante aumento anche a causa delle forti migrazioni verso le città.
Cos’è il progetto UN Habitat
«Dobbiamo tutti porci una domanda. Come umanità, dove vogliamo andare? Dobbiamo prendere atto che l’urbanizzazione è un fenomeno inarrestabile. Le faccio una domanda, quante persone tra i suoi amici hanno deciso di vivere in campagna?». Impiego un po’ di tempo a rispondere, «perfetto, mi ha già risposto. La tendenza è chiara, l’agricoltura non ha più bisogno di manodopera come in passato, il trend sarà quello di avere aree urbanizzate sempre più grandi». Tralasciando chi ha la possibilità economica per fare scelte di vita fuori dalle città, la maggior parte delle persone non ha opzioni. Le città offrono lavoro, opportunità, relazioni. «E’ una scelta che, come umanità, abbiamo fatto tantissimo tempo fa. Vivere insieme permetteva di ottimizzare le risorse e creare comunità che era fondamentale per la sopravvivenza».
Ma oggi le città sono in sofferenza. «Io vivo a Nairobi dove ha sede il quartier generale di UN Habitat» racconta Edlam. «Il 50% della popolazione di Nairobi vive in baraccopoli. Secondo il nostro rapporto 1,6 miliardi di persone al mondo vive in condizioni inadeguate. Le città sono sempre più divise. Basta passeggiare per New York e vedere molti senzatetto».
Le diseguaglianze nelle città
Risolvere questo tipo di problema è molto difficile. La città di New York in questo ultimo anno si è trovata a gestire un’ondata migratoria dal Sudamerica. L’emergenza abitativa ha spinto il sindaco di New York a creare convezioni con gli hotel di Manhattan per convertire le strutture ricettive, in alloggi per rifugiati. La collaborazione tra privati ed istituzioni si sta rivelando decisiva per affrontare l’emergenza abitativa. Problemi macroscopici come le migrazioni, il costo delle abitazioni, accessibilità di servizi, non possono essere risolti in poco tempo. «Non possiamo mancare l’opportunità di agire per tempo. Esistono aree urbane che ancora sono isole felici ma non lo resteranno a lungo se non affrontiamo i problemi abitativi nelle altre parti del mondo».
Houston e New York
Esistono case history interessanti che mostrano come agendo per tempo ed avendo visione del futuro, una città come Houston ha risolto il problema dei senzatetto. Nel 2011 la città texana aveva la sesta comunità più grande di senzatetto in tutti gli Stati Uniti, circa ottomila cinquecento persone.
Tredici anni fa Houston ha sperimentato il progetto “housing first” ovvero fornire la casa a tutti i senzatetto come condizione di partenza e solo dopo avviare i percorsi di recupero o reinserimento nella società. Non si richiede di trovare prima un lavoro, disintossicarci o cambiare vita. Questa politica ha permesso di risparmiare nel lungo periodo risorse sull’accoglienza, sanità e sicurezza. Impiegare risorse del Comune per tamponare situazioni e non aiutare i senzatetto ad uscire quella condizione, creava una sorta di dipendenza di aiuto senza fine.
Fornire un alloggio a tutti come base di partenza, ha dimostrato come le persone si sentissero responsabilizzate. Il progetto è stato realizzabile grazie all’interazione tra comune, fondazioni ed attori privati proprio come sta facendo New York per risolvere i problema dei migranti. Dalla primavera del 2022 a New York sono arrivati oltre 100.000 persone richiedenti asilo. Il governo federale non ha offerto nessun sostegno ed il sindaco di New York si è trovato solo a gestire l’emergenza.
Attualmente sono 59mila i migranti accolti utilizzando duecento strutture, tra cui diversi hotel di Manhattan che la città di New York ha affittato per accogliere i richiedenti asilo. «Il nostro lavoro come UN Habitat, è fornire numeri, statistiche, monitorare le situazioni delle città per dare input validi ai governi nazionali affinché possano intraprendere le decisioni corrette» afferma Edlam. «Nel corso degli anni abbiamo capito che un governo nazionale può anche intraprendere scelte per incentivare l’accessibilità alle case come mutui agevolati però poi sono i singoli Comuni che devono gestire il problema».
Nasce il Global Alliance of Mayors
Tra i suggerimenti che UN Habitat mette sul piatto c’è quello di favorire l’autonomia fiscale delle città per fornire loro risorse da poter gestire direttamente. «Spesso le singole città sono più operative rispetto ai governi nazionali ed è un peccato che questo buon lavoro possa essere interrotto se cambia colore politico del governo. Improvvisamente le città possono trovarsi con meno risorse se cambiano le priorità nazionali».
Per questo motivo proprio durante l’SDG11 di New York, UN Habitat ha annunciato il lancio del Global Alliance of Mayors con l’obiettivo di creare sinergie tra le città e condividere best practice. «Ora siamo tutti concentrati sui cambiamenti climatici ma pochi pongono l’accento che il 70% dei gas serra proviene dalle città quindi la scelta di un sindaco di una megalopoli su come intende gestire la mobilità urbana, riguarda tutto il mondo, ecco perché lavorare con i primi cittadini è fondamentale».
UN Habitat è consapevole dei veloci cambiamenti tecnologici che impatteranno la vita delle persone nelle città, le cosiddette smart cities. Nel mese di giugno UN Habitat ha definito le linee guida per governare il progresso tecnologico. «Si tratta di una pietra miliare importante che fisserà i principi e i valori chiave per garantire che le persone vengano prima della tecnologia». Ovviamente i problemi possono essere simili in tante città del mondo ma le ricette per combatterle sono diverse. In quasi tutte le città del mondo, nel corso degli anni, abbiamo assistito ad una divisione sempre più accentuata all’interno delle città. Può essere una divisione economica, sociale o di etnia ma il risultato è sempre lo stesso.
«Basta osservare quello che è successo nelle periferie di Parigi, le violenze, quelli sono sintomi di problemi non curati per anni». Città come New York da anni cerca di evitare l’urban divided. Nell’Upper West Side di Manhattan non è difficile trovare case popolari costruite dietro abitazioni di prestigio. Progettare una città senza favorire la nascita di ghetti, può essere un primo passo che però non può escludere una vera integrazione sociale. I community garden costruiti nel centro di Manhattan dovrebbero servire a creare luoghi d’incontro ed integrazione ma siamo lontani dai risultati sperati.
Le città a quindici minuti
Uno degli alert che l’SDG11 evidenzia è quello della crescente espansione delle bidonville. Nel 2030 potremmo arrivare a tre miliardi di persone residenti in baracche. «Per far pronte a questo problema abbiamo stimato che dovremmo costruire 100.000 case al giorno per raggiungere gli obiettivi prefissati, una sfida immane». Una sfida che, se non affrontata, causerà problemi anche alle cosiddette città ricche perché aumenterà la pressione migratoria. «La storia è ricca di esempi come la Corea del Sud o la Malaysia che negli anni ’70 avevano baraccopoli enormi e che oggi hanno risolto il problema».
Scorrendo tra i suggerimenti promossi da UN Habitat volti a creare città più sostenibili, c’è la città dei 15 minuti. «Durante il Covid la parola chiave è stata prossimità. Abbiamo avuto una visione concreta di come potrebbero essere le città dove tutti i servizi sono raggiungibili a piedi e questo ha un impatto non solo sulla qualità della vita ma anche sull’ambiente. Certe scelte dipendono dalla visione dei sindaci».
Il lavoro di UN Habitat è finanziato dall’ONU ma anche da singoli Stati che credono nella missione strategica dell’agenzia. L’Italia nel 2022 ha contribuito con 2,3 milioni di euro ed è il terzo paese europeo a contribuire maggiormente dopo Germania e Norvegia. «Il lavoro di UN Habitat è importante anche per definire i problemi. Fino a pochi anni fa non esisteva nemmeno una definizione oggettiva di baraccopoli».
UN Habitat ha contribuito a definire e misurare i problemi delle città. Come un medico che indica la cura ad un paziente senza forzarlo a prendere la medicina, allo stesso modo lavora UN Habitat. «Abbiamo svolto un grande lavoro sulla consapevolezza in questi anni ed abbiamo visto che se lavoriamo tutti insieme, molte delle sfide che abbiamo davanti potranno essere affrontate».