Appresi tutto quello che dovevo sapere sulla produzione di scarpe di tela alla Randolph Rubber Company di Randolph, in Massachusetts. Fu mia madre a procurarmi un lavoro da “service boy” [una sorta di fattorino o movimentatore di materiali, N.d.T.] presso quell’azienda quando avevo sedici anni. Dedicai i primi vent’anni della mia carriera a imparare il mestiere. Poco dopo la promozione a una posizione di supervisione da Randy’s, il mio capo Bob Cohen mi invitò a partecipare alla fiera semestrale del settore, organizzata dalla Boston Shoe Travelers Association: era l’evento durante il quale i rivenditori scoprivano le nuove collezioni e ordinavano le scarpe per la stagione successiva, quindi poteva essere considerato il momento più importante nel mondo della produzione di calzature. Poiché ero ancora piuttosto in basso nell’ordine gerarchico, il mio invito era subordinato al fatto che, mentre gli “uomini in giacca e cravatta” avrebbero cenato, sorseggiato vino e si sarebbero intrattenuti in compagnia, io mi sarei occupato di allestire, predisporre, organizzare e smantellare lo stand. Non mi importava perdermi i cocktail e le cene, neanche un po’; ero davvero entusiasta di poter assistere alla realizzazione di nuovi accordi. Per di più il mio capo, il figlio del proprietario di Randy’s, aveva una Buick decappottabile: viaggiando insieme, forse avrei avuto la possibilità di guidarla! Quel primo viaggio aziendale si rivelò essere il più istruttivo di tutti i vent’anni che ho trascorso da Randy’s: naturalmente imparai molto sul business, ma soprattutto vissi una delle esperienze più importanti della mia carriera… una che non aveva niente a che fare con le scarpe.
All’epoca Randy’s non era esattamente il negozio prediletto da chi voleva acquistare scarpe, ma considerato il rapporto di lunga data dell’azienda con Keds, poteva essere considerato un operatore di discreta importanza sul mercato. Ai tempi erano Keds e Converse le aziende più apprezzate; noi eravamo ben lontani da loro. Il primo giorno andò come mi aspettavo: gli acquirenti di vari grandi magazzini e punti vendita esaminarono i nostri prodotti, insieme ovviamente a quelli dei nostri concorrenti. Bob chiacchierava con la gente mentre io tenevo in ordine lo stand. Una delle persone con cui Bob intrattenne una conversazione era un importante acquirente di nome Harry, che lavorava per un grande rivenditore che rappresentava oltre il 50% del business di Randy’s. A un certo punto del pomeriggio lui e Bob se ne andarono; molto più tardi, quando tornarono a prendermi per rientrare a casa, Harry era ancora accanto a Bob. Bob era piuttosto allegro, mentre Harry era completamente ubriaco.
Se Bob era intenzionato a mettersi in viaggio, non lo dimostrò; nemmeno Harry sembrava pronto ad andarsene. Barcollò attorno a noi per un po’, poi si pose proprio di fronte a Bob e biascicò: “Bob, voglio che tu vada al Boston Common e mi catturi un piccione”. Bob, seppur sconcertato, rispose con naturalezza: “Andiamo, Harry, facciamo qualcos’altro, qualcosa di più divertente”. Ma non ci fu modo di far desistere Harry. “Dannazione, figliolo”, insistette Harry. “Voglio che tu mi prenda un piccione”. Mi sentii confuso: questi due uomini avevano circa la stessa età e, nel mondo degli affari, nessuno poteva essere il “figliolo” di qualcun altro. Forse Harry stava scherzando! Probabilmente sarebbe tornato in sé, o forse sarebbe stato Bob a infondergli un po’ di buon senso.
Eppure, poco dopo mi ritrovai appoggiato a un lampione di Tremont Street a osservare un uomo, che ammiravo quasi quanto mio padre, inciampare nei propri piedi nel tentativo di catturare un piccione. La mia reazione fu viscerale: mi sentii completamente disgustato. Forse Randy’s avrebbe perso la metà dei suoi profitti di quell’anno, se Bob avesse detto a Harry di andare a quel paese, ma non lo sapremo mai: chiaramente, Bob non aveva la minima intenzione di mettere a repentaglio gli affari legati a quel cliente da cui era del tutto intimorito. Per quanto ci provassi, non riuscii a mettermi nei panni di Bob: io non avrei mai potuto lasciare che un idiota mi umiliasse. Non mi sarebbe importato che Harry fosse la persona che comprava più della metà delle scarpe prodotte da Randy’s: avrebbe persino potuto essere l’unico cliente dell’azienda, ma non avrei mai lasciato che una persona avesse un controllo del genere su di me.
Dannazione, doveva esserci un modo migliore di gestire un’attività! E comunque, come mai dipendevamo solo da una manciata di compratori? Un giorno, in qualche modo, avrei trovato un modo per sbarazzarmi degli intermediari: nessun affare potrà mai valere quanto la mia integrità. Non dimenticherò mai quell’ora trascorsa al Boston Common guardando Bob Cohen inseguire i piccioni. Oltre ad aiutarmi a capire con che tipo di persone avrei voluto lavorare, mi permise di comprendere appieno quello che avrei sempre dovuto evitare: gli idioti.
Riconosco a quella esperienza anche l’avermi dato il coraggio, molti anni dopo, di avviare la mia azienda. Fino ad allora, infatti, mi ero occupato di gestire la fabbrica di maggior successo di Randy’s e avevo imparato l’essenziale sulla produzione di scarpe e un paio di nozioni utili sul business.
Un giorno, nel tentativo di placare il management, Bob (ancora il mio capo, nonostante fossero passati anni) decise di promuovere ai vertici un gruppo di ragazzi che aveva mandato a rotoli un’intera attività di produzione. Per quanto mi riguardava, chiedere alla mia squadra di riferire a persone che non sapevano come gestire un’azienda (di fatto, avevano dimostrato soltanto di sapere come rovinarne una!) mi sembrava una richiesta molto simile a quella di catturare un piccione: quello fu il mio ultimo giorno da Randy’s. Qualche fortuita svolta del destino più tardi, mi ritrovai a fondare la mia azienda calzaturiera.
La Van Doren Rubber Company, come venne chiamata inizialmente, non era certo perfetta, ma per me ci andava vicino. Grazie al finanziatore Serge D’Elia e agli altri partner, improvvisamente ebbi la possibilità di essere me stesso al 100%, responsabile di agire come meglio credevo e con piena libertà. Per una volta non avevo bisogno di consultare la dirigenza, chiedere al proprietario o ascoltare qualche laureato di Harvard che cronometrava gli addetti alla produzione per stabilire se fossero “efficienti”.
Con la crescita di Vans avrei dovuto sicuramente fare qualche concessione, ma non avrei mai permesso che fattori diversi dalle mie convinzioni influenzassero le decisioni da prendere. La mia sarebbe stata un’azienda autentica, non solo nella realizzazione di un prodotto di qualità, ma anche nell’operare in modo fedele alle mie certezze. Posso dire con convinzione che la costruzione dell’azienda che è diventata Vans è stata fino in fondo un’espressione della mia personalità.
La mia idea era quella di realizzare la scarpa migliore, con materiali e lavorazioni d’eccellenza. Fare scarpe è un’arte e io non ho mai voluto realizzare prodotti di seconda categoria. Nel campo delle calzature, la gomma vulcanizzata è da sempre sinonimo di qualità: all’epoca Charles Goodyear aveva capito come vulcanizzare la gomma (mescolandola allo zolfo e quindi riscaldandola per garantirne la durata e l’elasticità) e Keds aveva innovato l’incollaggio delle tomaie in tela alle suole di gomma. Se a questo aggiungiamo i miei vent’anni di lavoro in ogni sezione della linea di produzione, sapevo tutto quello che mi serviva sulla chimica e sull’arte di creare un paio di sneaker in tela di qualità.
Dopo aver aperto la fabbrica Vans, colsi ogni occasione per mostrare a chiunque fosse interessato come venivano realizzate le scarpe: adoravo la scienza e l’arte che c’erano dietro alla produzione e fui entusiasta quando altri seguirono il mio esempio. Avevamo scelto un modo diverso di competere e intendevamo raggiungere una posizione difficile da copiare: l’orgoglio per le modalità con cui creavamo le nostre scarpe era al centro della nostra identità in un mercato ormai piuttosto affollato.
Se non avessi imparato a fabbricare scarpe, non avrei mai potuto progettarle. Quando ebbi la possibilità di prendere in prima persona le decisioni, stabilii di voler creare una scarpa tanto innovativa quanto familiare: la caratteristica principale del mio design era una suola con motivo a nido d’ape cucita nella tomaia, due volte più spessa di quella di qualsiasi altra sneaker sul mercato, affinché le calzature fossero più resistenti e durassero di più nel tempo. Fin dal primo giorno, sapevo che il mio successo dipendeva dal gruppo che avevo radunato per realizzare scarpe della migliore qualità con uno scopo comune. Avevo bisogno di circondarmi di persone che condividessero la mia convinzione che niente nella vita o negli affari sia impossibile. Certo, potrebbe essere costoso, o richiederà più tempo di quanto qualcuno voglia impegnare, ma posso assicurarvi che, salvo quegli ostacoli, nulla è impossibile: chiunque dica il contrario mente.
Le caratteristiche delle persone che consideravo più importanti erano l’atteggiamento, l’integrità e il desiderio di agire nel modo giusto. Senza saperlo, all’epoca stavo dando vita a quello che sarebbe diventato l’impero Vans, modellando quell’atmosfera familiare inclusiva e incentrata sulle persone che divenne in seguito la “cultura di Vans”. Stavo costruendo l’azienda persona dopo persona, non mattone dopo mattone. La notte in cui vidi Bob inseguire i piccioni rappresentò un’esperienza fondamentale per me: il denaro è chiaramente la migliore ricompensa per ogni sforzo, ma non vale nulla se manca il rispetto. Da Randy’s, imparai molto più che a realizzare sneaker. Appresi che l’impegno, l’efficienza, gli sprechi, i profitti, la responsabilità e tutto ciò che accade in un’azienda dipendono dalla capacità di comprendere, rispettare e apprezzare una sola cosa: le brave persone, quelle che non chiederebbero mai ai loro colleghi di umiliarsi. Una delle mie convinzioni, che persiste nonostante Vans esista ormai da decenni, è che non siamo un’azienda di scarpe, ma un’azienda di persone che produce scarpe. Questa distinzione può sembrare nul- la, ma credetemi, è tutto.
***
Quali sfide attendono la società di domani? Quali sono i rischi e quali le possibilità offerte dallo sviluppo tecnologico? Per la rubrica “Futuro da sfogliare” un estratto del libro Autentico. Autobiografia del fondatore di Vans (Apogeo) di Paul Van Doren, il carismatico fondatore del brand Vans.