Strategie ESG, dati e casi studio nel report Sustainability Waves | ESG italian Startups. Ci ha aiutato nei commenti Giovanni Bugnotto, Head of Circular Innovation di Cariplo Factory
La sostenibilità non può fare a meno delle startup. Sono queste ultime, infatti, a scrivere la storia del green, lanciando nuovi business e soprattutto creando intere filiere da zero. Anche questo aspetto emerge dal report Sustainability Waves | ESG italian Startups realizzato da Cariplo Factory, che scatta una fotografia di quelle startup che, grazie a nuove tecnologie e processi, sono in grado di generare sostenibilità. Per aiutarci a interpretare i dati emersi nell’indagine abbiamo raggiunto Giovanni Bugnotto, Head of Circular Innovation di Cariplo Factory.
Sostenibilità: fatti non chiacchiere
Osservando i numeri delle 115 startup che hanno partecipato al sondaggio emerge che le attività ESG non si limitano solo alla sensibilizzazione dei clienti, un fronte su cui si impegna il 61% delle startup analizzate. Sempre più infatti l’aderenza ai principi della sostenibilità si tramuta in scelte strategiche e azioni, come la rinuncia a fornitori che non rispecchiano i propri valori aziendali e i principi ESG (una priorità questa nel 97% dei casi presi in analisi). Sempre di fatti parlano poi altri dati, secondo cui il 77% delle startup ha attivato programmi di tutela ambientale, mentre il 55% dispone già di tecnologie abilitanti per la riduzione dell’impatto sul Pianeta. Anche per quanto riguarda la S, che sta per social nell’acronimo ESG emergono spunti che fanno ben sperare per il futuro. Il 60% delle startup prese in esame ha un board composto da più del 50% di donne e il 59% ha un numero uguale o superiore di dipendenti di sesso femminile. Inoltre, un’azienda su tre ha un suo codice etico e una su due ha stretto partnership con enti di beneficenza o associazioni no profit. C’è ancora tanta strada da percorrere, invece, sul fronte della Governance, ma qui pesano anche le dimensioni piccole delle startup che sono per circa la metà in una fase early stage e growth. Solo il 16% ha attivato policy interne in materie di anticorruzione, il 21% policy per la salute dei dipendenti, oltre quelle obbligatorie, e il 33% iniziative per la cybersecurity.
«Questi numeri in crescita, rispetto agli scorsi anni, sono il risultato di un confluire di più elementi. C’è una maggiore attenzione mediatica ai temi del cambiamento climatico, sono aumentati poi gli investimenti sostenibili da parte dei fondi di investimento, trainati dalla scelta di leader del settore come BlackRock. E ancora, ci sono da registrare altri due fenomeni, come la crescita dei finanziamenti nelle energie rinnovabili e nella mobilità elettrica e la spinta delle direttive europee che hanno aumentato l’asticella per le aziende sui temi legati alla sostenibilità», spiega Bugnotto. Proprio per dimostrare la concretezza delle proprie scelte e azioni, le startup hanno aumentato gli sforzi sugli strumenti di misurazione, con l’uso di metodi standardizzati come lo LCA, che sta per Life Cycle Assessment. «Misurare l’impatto del proprio business ha tre vantaggi – continua Bugnotto – permette alle startup di comprendere al meglio i propri punti di forza e debolezza, rafforza la posizione ambassador del cambiamento, all’interno delle proprie filiere, e va incontro alle direttive europee che non valutano solo le capacità delle startup di stare al passo con il mercato, ma sempre di più anche la loro impronta ambientale».
Tre casi studio green
Sono tanti i casi studio di valore sul fronte della sostenibilità contenuti all’interno del report. Anche per questo motivo non è stato facile sceglierne tre da inserire in questo articolo. A colpirci favorevolmente, per esempio, c’è il caso della pisana DND Biotech che, guidata da Cosimo Masini, impiega funghi e batteri autoctoni per la bonifica di inquinanti ambientali grazie a un rover, un metodo economico ed ecologico rispetto ad altre soluzioni sul mercato. Fondata solo nel 2021, ha già ottenuto delle commesse importanti, come la bonifica di un sito in Kuwait, inquinato da copiose fuoriuscite di petrolio (ne abbiamo parlato qui). Altro caso studio riguarda la napoletana Isuschem che lavora in una filiera che è completamente circolare. Con a capo Vincenzo Benessere trasforma oli di scarto in bio ingredienti che possono essere riutilizzati in diverse industrie, da inchiostri da stampa, detergenti, cosmetici e creme solari. E ancora la torinese AWorld guidata da Alessandro Armillotta, una piattaforma che guida e incentiva persone, aziende e organizzazioni a migliorare le proprie abitudini e ridurre l’impatto individuale attraverso attività di educazione e tecniche di gamification (ne parliamo qui).
Nel report è rilevante una riflessione sugli ostacoli che impediscono il proliferare di iniziative sul fronte ESG, sia da parte delle startup che delle piccole e medie aziende: un quadro normativo ancora complesso in alcuni punti, i timori legati al greenwashing, i costi elevati e la scarsa trasparenza di benchmark. «C’è poi da registrare una carenza di esperti, imprenditori, mentor, investitori, che supportino le startup soprattutto in fase nascente su come declinare al meglio i fattori ESG all’interno delle proprie attività. Servono advisor che si intendano di temi come bioeconomia, energia, agrifood e che sappiano presidiarli nel tempo. Così le startup possono aprire gli occhi su alcuni mercati e superare dei muri che rischiano di rallentarne la crescita nel tempo», sottolinea Bugnotto. Assumendo queste competenze le startup potranno essere sempre più in rampa di lancio per offrire un proprio contributo sul fronte ESG. «Solo così potranno far dialogare e collaborare aziende che appartengono a comparti industriali diversi, creare nuovi prodotti e strumenti di misurazione dell’impatto ambientale e, soprattutto, continuare a inventare intere filiere».