“Innoviamo la logistica urbana con soluzioni personalizzate” racconta il founder campano, che da Napoli vuole conquistare l’Italia con la sua PonyU
Visione, carisma. Teoria e prassi, sogno e realtà. If you can think it, then just make it real, dicono da qualche parte oltreoceano, sponda pacifica. Luigi Strino ha 37 anni, e ha già fondato un’azienda di successo. Probabilmente la sua stella era questa, sin dall’inizio. Ma, prima di gettarsi anima e cuore nel mondo degli affari, ha vissuto molte vite diverse. Se l’intervista è fissata di lunedì mattina, di solito ci si salva col mestiere. Fatturati, bilanci, servizi, modelli di business, insomma, tutto quello che si chiede a un imprenditore con un progetto interessante. Ma nelle parole di Strino c’era qualcosa di diverso.
Dagli incendi al business, questione di coraggio
Ragazzo appassionato di informatica che programma da quando aveva quattordici anni, poi pony express per le vie caotiche di Napoli, dove fare consegne significa avere a che fare con il traffico di una città che impasta bellezza e confusione come poche al mondo. Non solo.
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Il coraggio, diceva Manzoni, se uno non ce l’ha non se lo può dare. Spirito di corpo, disciplina, senso del dovere sono qualità che si apprendono meglio quando la sirena suona e bisogna correre, senza farsi troppe domande. La sveglia è quella dei vigili del fuoco, un urlo fatto di alti e bassi che sembra un ottovolante e ti spezza il sonno, ti impone di andare senza sapere cosa ti aspetta, cosa vedrai, e se tornerai a casa intero. Strino decide di seguire le orme paterne e lavora per quindici anni tra incendi e salvataggi prima di mollare il posto fisso – che, nel suo caso, non significa al caldo – e rischiare il tutto per tutto. Ancora una volta. Ma, forse, a lui faceva meno paura.
Una logistica urbana diversa
Le business school aiutano, ma non si fonda un’impresa facendo camp di una settimana nella giungla. L’effetto è quello dei film con Montesano e Pozzetto: comico. L’impresa di Strino si chiama PonyU, e si occupa di logistica urbana, partendo proprio dall’esperienza del fondatore. Che distribuiva pizze e fritti stradario in mano. Negli anni Novanta, smartphone e navigatori erano là da venire. Non che dopo fosse cambiato molto.“Abbiamo cominciato nel 2015 in un mondo, quello dei corrieri, in cui il più moderno aveva la radiolina. E abbiamo provato a innovare” racconta a StartupItalia con voce pacata ma, al contempo, scattante.
PonyU prova a colmare un vuoto, introducendo nell’e-commerce i negozi di quartiere. Si tratta di una piattaforma che ottimizza il servizio (non nuovo) dei corrieri urbani introducendo una dose di tecnologia. E favorendo l’economia locale, spesso tagliata fuori dal circuito delle vendite online: ma perché rivolgersi ai giganti del web, se è possibile comprare un vestito o una macchina per il caffè a pochi chilometri da casa?
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“Tra i problemi dei negozi di quartiere ci sono le consegne – riflette il founder – Se si compra un vestito in Rete dall’altra parte della città, il pacco passa di mano quattro o cinque volte, tra hub e consolidamenti, prima di arrivare dal cliente”. A questo punto, si perde il vantaggio di fare acquisti vicino casa: e diventa facile rivolgersi a player che, grazie alle dimensioni, sono in grado di ridurre sensibilmente le attese.
Per non parlare dei resi, frequentissimi per alcune tipologie di prodotto: “Prendiamo la moda, un vestito o un paio di occhiali. Bisogna incartare di nuovo, spedire, infine attendere con pazienza la nuova taglia, assicurandosi, di nuovo, di farsi trovare in casa. Dieci giorni, in totale. Ci sembrava uno spreco. Il cliente vuole ricevere il prodotto quando lo desidera, e se non va bene, restituirlo e trovare subito il capo giusto”. Come quando si va in centro a fare shopping.
Il corriere si ferma e trovi subito la taglia giusta
La soluzione di PonyU è semplice ma intelligente: “Abbiamo preparato un’opzione di ritiro con il corriere che aspetta sotto casa quindici minuti, il tempo di provare l’abito e restituirlo nel caso in cui non vada bene o non sia gradito. Se il cliente lo desidera, il ragazzo torna, poi, con la misura, o il colore, giusto. Il servizio non costa molto più di quello base, ma consente al cliente di avere subito la misura o la tonalità adatti, come se si trovasse in camerino”.
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L’idea è di impatto. “Ma è la logistica che diventerà sempre più personalizzata – prevede il manager campano guardando al decennio che si apre – Ci sono e-commerce di grido che hanno investito decine di milioni per produrre confezioni facili da richiudere e restituire; ma il punto non è questo. Gli stessi locker sono un tentativo di risolvere il problema mettendoci una pezza. Del resto, il 70% dei clienti non torna a comprare online se ha avuto problemi proprio con la consegna”. E questo vale soprattutto per i piccoli negozi: “Noi forniamo ai negozianti una user experience completamente nuova per aumentare il valore per i propri clienti”.
Per non parlare del fatto che meno chilometri percorsi significa meno emissioni. La sala operativa di PonyU visualizza i mezzi presenti in città e manda il più vicino a ritirare il prodotto, portandolo direttamente a destinazione. Un solo passaggio. L’ambiente ringrazia.
Etica in moto
Impossibile non arrivare all’etica. I problemi dei rider e della gig economy stanno (fortunatamente) diventando un tema mainstream.
Il modello di pagamento basato sulla consegna? “Non è la nostra filosofia. Sin dall’inizio, nel 2015, non ho mai mandato in strada un ragazzo senza pagarlo quando non c’erano ordini. Rifiutiamo la logica del cottimo: che colpa ne ha il lavoratore se non ci sono consegne da fare? Lui ha fornito la propria disponibilità, si è tenuto libero, ed è giusto che venga ricompensato. Il rischio di impresa di avere una vettura vuota ce lo assumiamo noi”. Aria fresca in un mondo in cui si è scambiata la necessità di lavorare con l’assenza di tutele. “Chi lavora con noi, dipendenti e partner, ha un fisso minimo. Poi è chiaro che esistono i bonus”.
Rispettare chi lavora non significa cedere alla retorica. Anche un ex sindacalista, quale Strino è, ha chiaro che tutelare i diritti non può significare uccidere le imprese. I soldi, insomma, non crescono sugli alberi. “Credo sia arrivato il momento di superare la contrapposizione tra imprenditore e dipendente – riprende il fondatore – Pur senza considerare il profitto come fine ultimo, chi fa impresa resta un lavoratore, che deve, innanzitutto, stare sul mercato. E può pagare quello che il mercato consente”.
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Inutile raccontarsela: “Non posso dare 50 mila euro l’anno a tutti: l’azienda fallirebbe”. È, però, possibile offrire tutele, come l’assicurazione, “che fornivamo anche quando non esisteva un obbligo di legge”, e privilegiare chi conosce il business, creando percorsi che dalla strada portano in ufficio. “Il capo delle spedizioni nazionali fino a quattro anni fa studiava e faceva consegne il sabato; nella sala operativa lavorano solo ex pony. L’esperienza è maestra”. E la specializzazione non è un mantra. “Quando è eccessiva, diventa negativa. Si arriva al paradosso di chi sa avvitare una vite, e rischia di non saperla svitare”.
I giovani? “Una laurea non basta”
È chiaro che siamo in presenza di uno con una visione. Chiediamo che idea si è fatto dei giovani un padre di famiglia che si avvia ai quaranta. “Dobbiamo smettere di credere che chi è uscito dall’università abbia diritto a un lavoro solo perché ha passato anni sui libri” risponde. Tradotto: va bene la preparazione, ma, poi, a un certo punto, bisogna rimboccarsi le maniche. “Nel mio caso non c’erano alternative, e ho dovuto darmi da fare. La mentalità dualistica ci ha incattiviti. Ci sono due tipi di imprenditore: chi paga tutte le tasse, tratta bene i dipendenti e si suicida perché non ce la fa a fare le cose per bene. E chi, invece, li sfrutta. I lavoratori vedono l’imprenditore ancora come, mi consenta, ‘o mast (il padrone, in napoletano, ndr), un tizio a cui debbono solamente il proprio tempo in cambio di una paga. Ma ciò che serve davvero è l’impegno verso un obiettivo comune. In questo modo, quando una dipendente va in maternità, non lo vediamo come un costo: tenerla nel gruppo, piuttosto, è una risorsa”.
Round nel 2021, poi all’estero
Dipendenti che, nel caso di PonyU, sono trenta, oltre ai corrieri. Quartier generale a Napoli, uffici a Milano. Sono 27 le città raggiunte a oggi: in Campania, ovviamente, poi Lombardia, Sicilia, Veneto. Cosa rara, l’azienda, che nel 2019 ha fatturato 4 milioni, è ancora tutta di Strino e dei suoi cinque soci a vario titolo. “Nel 2021 ci piacerebbe fare un round: in cinque anni abbiamo dimostrato di potercela fare, e che il modello è forte, resistente, eticamente valido. Vogliamo diventare il player di riferimento della logistica urbana in Italia. E, nel prossimo triennio, provare a internazionalizzare”.
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Chi sono i competitor? “La miriade di realtà locali che fanno pony da sempre ma non hanno mai approcciato il mercato in maniera innovativa come noi, che abbiamo guardato alla logistica urbana nel contesto di quella nazionale. Tra lettere di accompagnamento, scan, codici a barre, le grandi aziende hanno difficoltà a lavorare con quelle che non sono al passo con la tecnologia. Noi ce l’abbiamo. Ma l’app, in sé, è semplice: la nostra vera forza è conoscere il mercato”. Se abbiamo peccato di entusiasmo, ce ne scusiamo. Ma abbiamo deciso, per una volta, di fidarci delle impressioni. Per chiudere questo 2020 su una nota di ottimismo. Che non guasta.