Nel 1920 la nonna di Dan aveva 5 anni. Lasciò Tricarico (vicino a Matera) e andò a New York, contribuendo a sviluppare il Lower East Side. Oggi, il nipote, vuole costruire il primo parco sotterraneo al mondo alimentato da energia solare. Una storia bellissima.
Ho scoperto la storia di Lowline, e di Dan Barash, una settimana fa, guardando un video. Una Ted Conference. Questa.
È la prima frase ad avermi fulminato: «Il mio sogno è quello di costruire il primo parco sotterraneo del mondo. A New York». Parole che in qualunque altro contesto sarebbero risultate stonate. Uno scherzo. A joke. Un parco sottoterra? Impossibile. Senza la luce del sole? Roba da film e libri di fantascienza.
Eppure, nello sguardo di Dan Barash, che ha lavorato in Kenya per l’Unicef ma anche per Google negli USA, c’era qualcosa che escludeva questa possibilità. Ho guardato l’inizio del video diverse volte. No, non era affatto uno scherzo. La voce di Dan è calma, lenta. Sorride leggermente, tenendo insieme vergogna e speranza. Come se stesse per rivelare un segreto inconfessato, difficile da spiegare ma pieno d’emozione. E in quel momento ho capito che in realtà quel parco esiste già. È tutto nella testa di Dan e dell’altro ideatore del progetto Lowline, James Ramsey.
C’è un pizzico d’Italia (e una super nonna) nel progetto
In questa storia c’è anche un pizzico di Italia. Nel 1920, infatti, la nonna di Dan lasciava Tricarico, un paese lucano in provincia di Matera (oggi conta poco più di 5mila abitanti) per cercare fortuna negli Stati Uniti d’America. Una storia di migrazione, come quelle che oggi leggiamo nei quotidiani. La foto fu scattata prima della partenza. Lei aveva solo 5 anni e, accompagnata dai fratelli più grandi, stava per compiere il viaggio più lungo, più difficile e più bello della sua vita.
Ed è stata anche lei, insieme a moltissimi altri, a contribuire allo sviluppo di quella parte di New York che oggi si chiama Lower East Side: «Ho chiesto a mia nonna di raccontarmi tutte le storie che conosceva sulla vecchia città. Lei spesso alzava le spalle dicendomi: c’erano più polpette, c’era più pasta».
Spazi verdi sotto i nostri piedi
Il Lower East Side è oggi uno dei quartieri più affollati di New York. Ma, parallelamente, è anche uno di quelli che ha meno zone verdi in assoluto: «Meno di un decimo rispetto ad altre zone della città». Il progetto è nato dunque da una domanda: Come possiamo costruire più spazi verdi anche qui?
Nel 2009 James parla al suo amico Dan di un luogo strano, decaduto ma di rara bellezza. È una stazione, sotterranea, costruita 107 anni prima e attiva fino al 1948. Ci passavano i pendolari che dovevano oltrepassare il Williamsburg Bridge con i loro bagagli e carrelli. Da Brooklyn verso Manatthan e viceversa: «Proprio il periodo in cui hanno vissuto i miei nonni» ricorda Dan. Dopo alcune battaglie burocratiche i due giovani sono riusciti ad ottenere dalle autorità l’autorizzazione a usarla, a darle nuova vita: «Quando ci siamo entrati ci sembrava di essere come Indiana Jones».
Avevano improvvisamente trovato una soluzione folle al quesito iniziale: costruire aree verdi si può, basta farle sotto i piedi delle persone; sotto le strade e il cemento. Sotto quello skyline che ormai sovrasta tutto e tutti; cambiando cioè prospettiva e volgendo lo sguardo verso il basso. Da qui un nuovo e folle quesito: come portare la luce sottoterra? Come alimentare le piante in maniera naturale? Quale tecnologia usare?
Una risposta è già stata data anche in questo caso: grazie alle innovazioni elaborate da James e dal suo studio, Raad. La tecnologia solare proposta parte dalla creazione di un “remote skylight” (una sorta di parabolone 2.0 che funziona a distanza) adibito alla cattura della luce del sole. Questa, passandoci sopra e riflettendosi su uno o più vetri (assai resistenti) viene catturata in un punto specifico e reindirizzata sottoterra, attraverso tubi speciali.
La luce solare, una volta giunta a destinazione, viene ridistribuita in tutto l’ambiente. È una tecnologia in grado di inviare la giusta quantità di luce per supportare fenomeni come la fotosintesi, rendendo possibile lo sviluppo di piante e alberi. Il prototipo di questa tecnologia è stato testato nel settembre del 2012 in un magazzino abbandonato. L’esibizione ha attirato migliaia di visitatori, curiosi, giornalisti e professionisti. È stata la prova che il sogno di Dan e James non era affatto un’utopia.
«L’innovazione più importante di Lowline» dice James «sta nel fatto che noi catturiamo la luce naturale del sole per mandarla sottoterra e far crescere qualcosa. Sfruttando gli effetti naturali di questa luce trasformeremo una stazione abbandonata in un vibrante spazio pubblico pieno di alberi e piante». Un parco dove stare 365 giorni all’anno, indipendentemente dal clima, dalla stagione e dalla temperatura esterna. Un parco 2.0, iper connesso ma che favorisce l’incontro e l’interazione tra le persone.
La nascita di Lowline Lab
Lowline ha lanciato una campagna crowdfunding (oltre 150mila dollari raccolti) per la costruzione di un laboratorio di ricerca che, a partire da settembre 2015 e per la durata di sei mesi, metterà a punto la tecnologia solare e il sistema di distribuzione: «Metteremo a punto la nostra tecnologia attraverso una serie di test, pensando anche ai paesaggi e a come organizzare spazi e interazioni». Ma il laboratorio avrà anche un’anima sociale ben definita: si incontreranno varie associazioni e categorie di cittadini; si farà educazione con i più giovani; si camminerà negli spazi (sono grandi quanto un campo da calcio) e si parlerà dei progressi, condividendo idee e punti di sviluppo.
Il progetto, che ha già ottenuto il plauso di moltissimi cittadini, ha l’appoggio di moltissime figure politiche e del mondo dello spettacolo. Artisti come Kenny Sharf, Megan Ellison, Lena Dunham si sono già espressi positivamente lodando i due ideatori del progetto (che dovrebbe essere completato entro il 2018). Come dice Dan: «Mi piacerebbe che questo parco racconti la storia della mia famiglia. I mie nonni e i miei genitori si sono impegnati per la costruzione di questa parte di città. La mia generazione deve reclamare questi spazi, riscoprire la loro storia passata e immaginare un nuovo modo per renderli più belli, funzionali e giusti».