La storia della penna è una storia straordinaria. Una storia di fallimenti, prove ed errori, inciampi legali e scoperte illuminanti. Fino alla metà del XIX secolo, la penna d’oca era lo strumento di scrittura più utilizzato nonostante alcuni difetti: la punta si consumava rapidamente, doveva essere affilettata di frequente per mantenere un tratto preciso, richiedeva particolari abilità manuali e condizioni adeguate per essere utilizzata. Numerosi sono stati i tentativi per correggerne i difetti ad opera di inventori i cui nomi sono noti, forse solo, ai collezionisti di questo iconico oggetto di scrittura. Tra questi inventori figura l’intermediario assicurativo L. E. Waterman.
Siamo nel 1883 a New York City e Waterman sta per chiudere un importante accordo commerciale con un cliente. Di lì a qualche giorno il cliente avrebbe apposto la sua firma sul contratto. Per suggellare quel momento Waterman compra una nuova penna stilografica. Durante la firma del contratto consegnò la penna, ma quando il cliente la sollevò per firmare, una grande pozza d’inchiostro macchiò il contratto. L’inconveniente ritardò la firma di qualche giorno. Infastidito dell’accaduto, il cliente si rivolse ai concorrenti. L’imprevisto spingerà Waterman a brevettare una nuova stilografica, correggendo gli errori delle penne disponibili allora sul mercato. Il racconto di questa storia si trova sul sito aziendale della Waterman Pen Company (oggi Waterman S.A.), ancora attiva nel settore.
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Che questa storia, conosciuta con il nome di ink blot, sia vera o frutto di fantasia, non è dato saperlo. Quel che è certo è che imprevisti, frustrazioni e lampi di genio sono gli ingredienti che rendono memorabile e coinvolgente le storie, anche quelle scritte da maestri del marketing. E, altra cosa certa, che alla fine degli anni ‘50 la Waterman Usa – la casa madre – dichiarerà fallimento e venderà i suoi impianti alla concorrente BIC.
Alla base della crisi la decisione di F. Waterman, figlio del fondatore, di utilizzare i fondi aziendali per finanziare la propria campagna elettorale a sindaco di New York. La sconfitta contro il candidato democratico non segnò solo un punto di svolta negativo per i bilanci aziendali, ma rappresentò anche un momento critico per l’intera azienda. Nonché l’approccio eccessivamente conservatore e una scarsa propensione all’innovazione contribuirono a un declino inevitabile, compromettendo la capacità della società di adattarsi ai cambiamenti del mercato e mantenere la propria competitività.
Sbagliando si crea qualcosa di nuovo
Il 30 ottobre 1888, John J. Loud, avvocato, conciatore e inventore, ottenne il brevetto USA n. 392,046. Era il primo brevetto per la penna a sfera progettata «per la marcatura su superfici ruvide come legno, carta da pacco grossolana e altri articoli su cui non è stato possibile utilizzare una penna normale». Non indicata quindi per essere utilizzata su superfici delicate come la carta. Inoltre, l’inchiostro presentava problemi di sbavature.
Loud non cercherà di migliorare il prodotto per commercializzarlo e alla fine farà decadere il suo brevetto. Ci vollero ben 40 anni prima che un inventore ungherese riuscisse a perfezionare tutti i prototipi difettosi sviluppati nel corso del tempo. Il suo nome è László József Bíró, poliedrico personaggio – ex studente di medicina, ipnotizzatore, pilota d’auto, doganiere, agente di borsa, pittore, scultore, giornalista- il cui nome rimarrà sempre associato all’invenzione rivoluzionaria della penna a sfera. E alla sua incapacità di trasformare qualunque sua brillante idea in un business redditizio per le proprie tasche.
Negli anni ’30 la stilografica era una penna molto comune ma aveva parecchi inconvenienti: doveva essere ricaricata molto spesso, macchiava il foglio, le mani, il taschino. Inoltre, bisognava aspettare che l’inchiostro si asciugasse. Da redattore di un settimanale politico, Bíró usava una stilografica Pelikan ed era ben consapevole di questi problemi tanto da esserne frustrato. Frustrato per l’enorme perdita di tempo che richiedeva l’atto dello scrivere. Dapprima cerca di brevettare una diversa penna stilografica, ma il progetto non andò in porto. Qualche anno dopo la frustrazione lo spinse a cercare un mezzo di scrittura più pratico della stilografica. La soluzione era a portata di mano.
L’inchiostro usato per la stampa dei giornali si asciugava rapidamente e non creava sbavature. Nei suoi primi esperimenti, sostituì l’inchiostro tradizionale con questo tipo di inchiostro. Ma era così denso da rendere poco fluida la scrittura e la lettura delle lettere. Chiese allora aiuto al fratello György, dentista con competenze chimiche. Ma nulla.
Seguirono anni di tentativi senza che la soluzione vedesse la luce. Finché un giorno del 1937, mentre camminava, osservò dei bambini che giocavano a biglie tra le pozzanghere: le palline che ne avevano attraversata una lasciavano una scia uniforme come la scrittura che aveva vagheggiato. Più probabilmente il momento eureka Bíró lo ebbe non quel giorno ma quando venne a conoscenza del brevetto fallito di Loud, ma la sua autobiografia racconta un’altra storia.
Il fallimento come occasione
Quando le cose sembravano migliorare, il destino rimescolò le carte. Nel 1938, Bíró viene licenziato dalla rivista a causa delle leggi razziali, essendo di origini ebraiche. L’incontro di Bíró con A. Goy, inventore ungherese e riparatore di macchine da scrivere, diede alla storia una svolta imprevista. Sarà il fratello a cercare la formula per produrre un inchiostro con la giusta viscosità per scorrere agevolmente sulla sfera e al contempo asciugarsi rapidamente. Dopo diversi tentativi, nel 1938 i fratelli Bíró riuscirono a creare un prototipo soddisfacente, e brevettarono la loro penna. La penna sarà commercializzata grazie al supporto finanziario di Goy.
Nel mentre, l’Ungheria si alleò con la Germania nazista, e Bíró fu costretto a fuggire. Prima tappa Parigi. Incontrerà personaggi che, come altri in questa storia, compresero il potenziale di quella idea. Tutti erano disposti a tendergli una mano ma con il solo scopo di trarre il massimo profitto per sé stessi. Nel Cafè de la Paix conoscerà un altro ungherese, G. J. Meyne, con il quale fugge in Argentina a bordo di una nave da crociera privata. Scoprono solo a bordo che il comandante non aveva mai affrontato l’Atlantico. E infatti prima di arrivare a Buenos Aires sbagliò più volte la rotta. Quasi una metafora del percorso tortuoso che Bíró e la biro affronteranno.
Siamo nel 1941 e grazie al supporto di una coppia sull’orlo del fallimento, i Lang, e superando difficoltà tecniche ed economiche, il prodotto venne perfezionato. La Philips si mostra interessata a finanziaria il progetto. E quando finalmente la penna è pronta per essere brevettata, l’occupazione tedesca dell’Olanda e la conversione degli stabilimenti Philips per scopi bellici mandano nuovamente all’aria i piani.
Ma evidentemente questa non doveva essere la fine della storia. Grazie al supporto economico dei Lang, al consenso prestato dagli operai di lavorare senza retribuzione per alcuni mesi e alla decisione di Bíró di detenere meno del 10% delle quote della nuova società vide la luce Eterpen: la penna eterna. Dopo l’entusiasmo iniziale, dovettero però fare i conti con le lamentele dei clienti. Le penne scrivevano male e perdevano inchiostro. La ditta svedese che forniva le piccole sfere non le produceva tutte con la stessa perfezione.
Costruire nuove opportunità d’azione
Seguirono anni di esperimenti che portano alla luce la Stratopen (che doveva stare dritta per scrivere) e poi la Bírome (dall’unione dei cognomi Bíró e Meyne). Ma serviva ancora denaro per produrre e commercializzare il prodotto. Meyne conosceva un certo H. G. Martin, banchiere inglese. Martin non era esperto di penne e invenzioni ma aveva una informazione preziosa che lo spinse a finanziare l’attività a patto di avere il 51% delle azioni, a Bíró solo l’8%.
Martin era a conoscenza del fatto che la Royal Air Force britannica aveva grossi problemi con gli utensili da scrittura ad alte altitudini. La penna stilografica tendeva a perdere inchiostro e gli ufficiali stavano cercando uno strumento adatto per tenere i registri di volo durante il volo. Bíró firmerà il primo contratto di 30.000 penne con il governo britannico. Solo nel 1943, dopo aver ulteriormente migliorato l’erogazione dell’inchiostro, Bíró brevettò la penna biro. Le prime penne furono messe in commercio nel 1944 e Martin ottenne il diritto esclusivo di venderle negli Stati Uniti, in Canada e Portorico per 2 milioni di dollari. All’inventore arrivò ben poco in denaro, e molto in problemi.
Il prezzo, troppo alto rispetto alle altre penne. E la mancata competenza. L’azienda americana, Eversharp, che aveva l’incarico di produrre le penne, pur producendo penne di qualità ed ottime finiture non aveva le competenze tecniche per mettere sul mercato un ottimo prodotto a sfera. E i ritardi nella produzione e commercializzazione della Bírome favorì la concorrenza.
Diversi innovatori e produttori, tra cui E. Faber e M. Reynolds, apportarono miglioramenti. Quest’ultimo, spregiudicato imprenditore americano, copia sostanzialmente l’idea e anticipa la biro di Bíró prima del suo lancio. La battaglia legale con la Reynold’s International Pen Company, le enormi spese di investimento per la produzione della penna a sfera e per la campagna pubblicitaria furono un colpo fatale per le finanze della compagnia Eversharp che cessò le attività nel 1957.
Intanto, nella storia della penna, fece il suo ingresso l’italofrancese Marcel Bich. Nel 1950 mette in vendita la sua BIC Cristal. Una biro migliorata che gli costerà una sanzione e la confisca di tutte le BIC prodotte e depositate nei magazzini. Anche questo imprevisto non rappresenta la fine della storia ma un nuovo inizio per la biro e soprattutto per la BIC. Ma non per Bíró.
Bíró era un ottimo inventore (registrò circa 100 brevetti) ma un pessimo imprenditore, e tutti i contratti che firmerà non lo renderanno benestante. In particolare quelli legati al cambio automatico dell’auto ceduto alla General Motors e alla penna.
Nella sua autobiografia scriverà che aveva imparato che dalla sua invenzione «non avrebbe ricevuto che briciole». Nonostante ciò «ho avuto la soddisfazione del successo dell’invenzione, una soddisfazione che gli altri non possono avere».
Le 3 regole d’oro
La prima regola è ricordarsi che anche la migliore delle idee, da sola, non basta. E non basta neanche metterla in pratica. Per trasformare una innovazione in un successo commerciale serve un team con le giuste competenze e persone disponibili a perseverare nonostante le difficoltà.
La seconda regola è valorizzare gli errori. Innovare significa anche perfezionare l’esistente. E la perfezione si raggiunge correggendo gli errori altrui o i propri.
La terza regola per il successo la ricorda Dyson: Occorre sforzarsi fino a compiere l’impossibile mostrando lo stesso livello di interesse anche quando le cose vanno male.
E voi che lezione avete appreso? Se volete raccontarmi la vostra storia di fallimenti e lezioni apprese, scrivetemi qui: redazione -chiocciola – startupitalia.eu