Una ricerca delle psicologhe Werner e Smith cominciata nel 1955 ha seguito la crescita di 700 bambini. Un terzo di quelli considerati a rischio è riuscito comunque a realizzarsi dimostrando capacità di recupero: la cosiddetta resilienza
Nascere in una famiglia povera, con problemi di alcolismo o di violenza domestica significa necessariamente essere condannati a una vita di insoddisfazione e stenti? Secondo il “Kauai Longitudinal Study” non è detto. Nel 1955 Emmy Werner e Ruth Smith, due studiose di psicologia clinica e dello sviluppo, hanno iniziato un esperimento sull’infanzia destinato a durare a lungo. Per la precisione 40 anni. Hanno deciso di seguire la vita e la crescita di tutti i bambini nati in quell’anno sull’isola di Kauai, Hawaii. Questa ricerca è riuscita in qualche modo a capovolgere la comune convinzione che i fattori di rischio abbiano sempre un effetto negativo sulla vita dei bambini e sul loro sviluppo. Seguendo le tappe dell’esistenza della giovane popolazione di Kauai, le due ricercatrici hanno dimostrato che in alcuni casi essere sottoposti a stress legati alle particolari condizioni familiari o alle ristrettezze economiche può fare da stimolo per il raggiungimento del successo.
Lo studio sui bambini “a rischio”
Quando sono arrivate nelle Hawaii Emmy Werner e Ruth Smith hanno per prima cosa diviso in due gruppi i quasi 700 bambini selezionati per lo studio. Da una parte quelli considerati a basso rischio, perché appartenenti a nuclei familiari stabili e benestanti. Dall’altra quelli “a rischio” perché nati in povertà, con situazioni familiari difficili, con episodi di violenze domestiche, con genitori malati o alcolizzati. I due terzi di questi bambini hanno in effetti sviluppato negli anni dei disagi e non sono riusciti a realizzarsi. Ma un significativo terzo del gruppo “a rischio” ha ribaltato le aspettative: alcuni sono riusciti a crescere senza problemi e a diventare abili, sicuri di sé e altruisti.
Questo fenomeno è stato definito dalle studiose “resilienza“.
Questi bambini hanno quindi recuperato lo svantaggio iniziale e sono stati capaci di trasformarlo in punto di forza. I risultati della ricerca sono stati osservati da operatori sanitari, pediatri, infermieri e operatori sociali a diverse età. Le rilevazioni sono infatti avvenute a uno, due, dieci, 18, 32 e 40 anni. E nei casi di resilienza si è potuto evidenziare che, mano a mano che l’età avanzava, questi ragazzi che avevano avuto a che fare con la delinquenza, la violenza, la malattia, superavano quei problemi e conducevano una vita sociale regolare, con buon rendimento scolastico e con ambizioni riguardo al loro futuro. Al raggiungimento dei 40 anni di età, nessuno di questi giovani risultava disoccupato, con problemi giudiziari o con la necessità di ricorrere ai servizi sociali.
Quei bambini ormai sessantenni
Lo studio è ancora in corso ed è ora nelle mani di Laurie D. (Lali) McCubbin dell’università di Louisville. Lali McCubbin è la figlia di Hamilton McCubbin che ha lavorato accanto a Werner e Smith nella fase iniziale della ricerca. Si trova ora a gestire un’eredità importante e ha il compito di portare avanti uno studio che lei stessa definisce rivoluzionario. «Quello che ha reso questa ricerca unica è la conclusione che nonostante i fattori di rischio non c’è la garanzia di trovarsi su una certa traiettoria», ha detto Lali McCubbin a Lucy Maddox di Mosaic. La ricercatrice dovrà seguire il processo di invecchiamento dei soggetti che furono scelti nel 1955, con attenzione particolare alla loro capacità di superare gli ostacoli e recuperare. E dovrà continuare nell’individuazione dei fattori che hanno protetto questi individui dal fallimento.
Carattere, connessioni umane, appartenenza: i fattori della resilienza
E proprio a proposito dei fattori che rendono possibile la resilienza, la capacità cioè di neutralizzare gli elementi di rischio, nei rapporti e nei libri già scritti dalle due ricercatrici originarie c’è un elenco delle motivazioni che sarebbero dietro a questo fenomeno: il temperamento dei bambini, la presenza di una persona su cui contare e il senso di appartenenza a un gruppo più ampio, religioso, militare o scolastico. Lucy Maddox ha raccolto la testimonianza di una di quelle ragazze che ce l’ha fatta. Si tratta di Mirena (nome di fantasia), nata a Kauai nel 1955 in una famiglia povera con 7 figli. Il padre era alcolizzato e a volte si dimostrava violento nei confronti della mamma. A 18 anni Mirena era già una giovane madre, ma nella sua vita lei oggi riesce a individuare una figura che le ha datto sicurezza, la nonna. «Nemmeno una volta mi ricordo di essere stata cacciata via dalla sua casa. Nemmeno una. Lei mi portava nella vaschetta all’esterno e mi puliva dal fango. Poi mi portava nella vasca da bagno. Io ricordo che la mia nonna era l’unica che mi strofinava per pulirmi», racconta. Nella sua vita è poi arrivato il collegio, la vita con altri ragazzi, la consapevolezza che non tutte le famiglie erano come la sua. E che poteva aspirare a crearne una felice, cosa che poi ha fatto con suo marito e con i suoi 7 figli.
Conoscere lo stress per imparare ad affrontarlo
Quello di Werner e Smith non è l’unico studio sulla resilienza dei bambini che è stato fatto nel mondo. Il ricercatore del London’s Institute of Psychiatry, Psychology & Neuroscience Michael Rutter ha studiato la condizione dei bambini rumeni ospitati negli orfanotrofi durante il periodo di Ceausescu. Rutter ha seguito lo sviluppo di questi bambini anche dopo l’adozione. E ha potuto riscontrare che la resilienza non è un tratto fisso, ma dipende dalle avversità che i bambini si trovano ad affrontare. È quindi più simile a un processo di adattamento. In generale, però, si è convinto che i bambini debbano essere sottoposti allo stress durante la loro vita così che possano imparare ad affrontarlo. Intanto il Kauai Longitudinal Study continua. McCubbin ha iniziato le interviste con 8 dei bambini del 1955, ormai sessantenni. E l’elemento che viene subito confermato dalle voci di questi protagonisti è l’importanza delle connessioni umane. Anche Mirena è rimasta convinta che «avere qualcuno che si cura di te, anche solo una persona, possa fare la differenza».