Le startup europee crescono, prevedono nuovi finanziamenti e assunzioni. L’ecosistema italiano migliora. E’ uno dei più giovani e ha grandi potenzialità, ma si dimostra ancora troppo casalingo
Non esiste (ancora) un ecosistema europeo. Il continente che si legge sullo European startup monitor è ancora costruito per spazi diversi, con regole e scelte diverse. Al più si riconoscono alcuni tratti comuni. Che però fanno dell’Europa un condominio più che un ambiente unico.
FUNDING. Le startup europee hanno incassato in media 2,5 milioni di euro. Un dato che però è sostenuto da pochi, grandi finanziamenti. Perché un quarto delle startup ha ricevuto meno di 50 mila euro. Quando le cifre salgono, ci sono di mezzo angel e venture capital. Ma nella maggior parte dei casi i primi “round” arrivano dalle proprie tasche o da quelle di famiglia e amici. I fondatori sono in gran parte uomini. Giovani ma non giovanissimi: gli under 24 sono meno degli over 45.
Quello italiano è un ecosistema in evoluzione, con età media delle imprese e dei fondatori tra le più basse d’Europa. Le assunzioni cresceranno, al netto di alcuni difetti: ci sono poche donne startupper, il mercato dimostra di essere molto casalingo, poco attento all’espansione internazionale e incapace di attrarre talenti dall’estero.
Le startup europee puntano più a sopravvivere che a scalare
Le startup europee, con Londra, Parigi, Berlino come principali hub, crescono. Ma non sono ancora al passo con quelle di Asia e Nord America. La grande differenza sta spesso nella prospettiva di partenza: le startup europee puntano spesso a business più piccoli, costruiti in molti casi per la sussistenza dei fondatori e non per l’espansione globale.
Le 2365 startup analizzate in 28 mercati europei hanno in media 2 anni e mezzo. Il 29% ha meno di un anno e quasi tre su quattro meno di tre. La Svezia mostra una solidità notevole, con una media che supera i 5 anni. Mentre l’Italia (con 1,7) è seconda solo alla Romania quanto a gioventù. Che può significare meno solidità ma anche un ecosistema in fase di sviluppo (in Italia il 43,7% delle startup ha meno di un anno). Qualsiasi sia la lettura del dato, il nostro Paese resta comunque un’anomalia. Perché i mercati con età media vicini alla nostra (Repubblica Ceca, Romania e Polonia) si muovono in economie bene più piccole.
Il 21,2% delle imprese è ancora al seed stage, ma la maggior parte (48,5%) è nella fase di startup vera e propria e ha già prodotto fatturato. Quelle matura, in fase di crescita, sono il 23,9%. E solo l’1,6% è arrivato nel bacino dei later stage. Una distribuzione, con piccole differenze, comune a tutti i Paesi europei.
Italia, un mercato giovane fatto in casa
L’età media dei fondatori in Europa è di 34,6 anni, con un consistente 14,3% di over 45. Gli startupper sono giovani, ma non giovanissimi. Gli over 45 sono molti più degli under 24 (8,2%). Il grosso (poco meno della metà dei fondatori) si concentra tra i 25 e i 34 anni. L’Italia, in linea con la giovane età delle imprese, è il terzo Paese per percentuale di under 24 (il 12,9%, alle spalle di Belgio e UK).
Gran parte degli startupper fonda un’impresa nel Paese dov’è nato (88,1%), il 7,6% lo fa in un altro Paese Ue, mentre il 4,3% dei fondatori arriva da uno Stato extra Ue. Quello europeo si dimostra quindi un mercato ancora molto statale, dove le differenze politiche e regolatorie si fanno sentire. Ad esempio: la Repubblica Ceca dimostra di saper attirare (con il 18,2%) startupper da fuori Europa. Così come l’Olanda. Paesi Bassi, Austria ma soprattutto UK (con un quarto dei fondatori proveniente da altri Paesi Ue) sono i poli di maggiore mobilità interna.
L’Italia, invece, è in assoluto il mercato più chiuso. O, se vogliamo, meno mobile. Il 97,8% delle startup con sede in Italia è fondato da italiani. Solo l’1,6% arriva da altri Paesi Ue e lo 0,5% da extra Ue. Segno di un ambiente poco attrattivo, o comunque non abbastanza da convincere uno strartupper. Per quanto si possa fare affidamento al talento italico, resta una debolezza. Perché la contaminazione è una risorsa.
Un founder su sette è donna, solo in Svezia uno su tre
È significativa una distinzione di sesso: le donne che fondano una startup nel proprio Paese sono l’83,8% (meno rispetto all’89,4% degli uomini). Perché? Il report non dà spiegazioni. Ma l’ipotesi porta a considerare la necessità (in alcuni Paesi) di espatriare per fondare. E i maggiori imputati sono quei Paesi dove la quota rosa è inferiore.
In Europa l’85,3% dei fondatori è maschio e il 14,7% donna. E qui il panorama è tutt’altro che omogeneo. La maggioranza maschile resta netta, ma si affievolisce in Svezia (dove un terzo degli startupper è donne), Romania (il 28,1%) e Francia (26,7). Sull’altro fronte la Repubblica Ceca ha un imbarazzante 0%. L’Italia è nelle retrovie: solo il 13,5% è donna. Oltre alla Repubblica Ceca, solo la Germania fa peggio, anche se sullo stesso livello dell’Italia (decimale più, decimale meno) ci sono anche Belgio, Olanda e Israele. Ma il mal comune non è neppure mezzo gaudio.
Chi fa startup? Ottimisti, con esperienza
Il 59% dei fondatori è alla prima esperienza. Per converso, il 41% ha già fondato altre imprese, e il 18,4% ci ha provato almeno altre due volte. E non si è trattato, in molti casi, di fallimenti. La precedente esperienza si è chiusa con una debacle solo nel 4,5% dei casi. Si è trattato più spesso di una scelta volontaria (28,3%). Nel complesso, il passato è positivo. Perché nel 16% dei casi c’è stata una vendita. Nel 14,2% la vecchia startup è stata lasciata ed esiste ancora. Ma soprattutto, nel 37% dei casi i nuovi startupper conservano una quota della precedente esperienza.
E se questa volta andasse male? Che sia una nuova o l’ennesima esperienza, gli startupper mettono in conto il fallimento. Senza che questo significhi rallentare la corsa. Due terzi degli intervistati ci riproverebbe, il 15,4% si darebbe al lavoro da dipendente. Solo l’1,1%, distrutto dai propri errori, smetterebbe di lavorare. Romeni, cechi e israeliani sono i più agguerriti (in Romania solo uno su 10 non fonderebbe un’altra strartup). L’Italia è in media europea, con il 70,7% di imprenditori pronti a riprovarci. Alta (la maggiore d’Europa, con il 6%) è la percentuale di italiani che si trasformerebbero in investitore o business angel.
I settori più sviluppati nell’Europa delle startup
Le startup europee mostrano di muoversi in un panorama variegato. La percentuale maggiore, il 16,4%, si concentra nel settore software e service. È seguita da IT, mobile e web app, e-commerce. Anche in Italia la categoria “software e service” ha la meglio, seguita da IT e online marketplace. Spicca no alcune differenze geografiche: i Paesi del sud (Italia ma anche Spagna e Israele) destinano grande attenzione all’online marketplace. L’Europa orientale (Polonia, Repubblica Ceca e Romania) è focalizzata sullo sviluppo di software e servizi.
Scorrendo i podi dei diversi Stati, ci sono alcuni Paesi fuori sentiero, che hanno investito molto su settori che non corrispondono alla distribuzione continentale. Ad esempio, in Francia il settore più battuto è quello delle tecnologie bio, nano e medicali. In Svezia spiccano le agenzie di consulenza. In UK il mobile e le web app.
Chi fonda una startup ha l’obiettivo di innovare. Ma come? E con quali obiettivi? Quasi una startup su 2 punta in alto e pensa che la propria idea costituisca una novità a livello globale. Al capo opposto, un 13,5% crede che la propria statup non sia una innovazione. In mezzo, coloro che puntano a innovare il mercato regionale (8,6%), nazionale (15,6%) e continentale (14,2%).
L’Italia? Punta sull’Italia
Quali obiettivi hanno gli italiani? Come già hanno raccontato i dati sulla nazionalità dei fondatori, le startup italiane si confermano assai casalinghe: una su cinque mira a innovare solo il mercato nazionale. Nessun altro Paese europeo ha un quota così alta. Colpa di aspettative basse rispetto alla realtà o di idee prese dall’estero e adattate al mercato italiano?
Altro indizio di chiusura: il 56,9% delle imprese italiane si rivolge solo al mercato domestico. Solo la Germania ha una percentuale maggiore. È un dato ambivalente. È normale che la cifra cresca in un mercato dove la domanda interna è più forte. E per quanto pesi la crisi, l’Italia ha pur sempre un mercato più ampio rispetto ad Austria, Olanda o Israele. Per lo stesso motivo la Germania, principale economia europea, conquista la vetta di questa graduatoria.
Allargando lo sguardo all’Europa, la prospettiva di una internazionalizzazione è solida: solo il 18,4% delle startup non prevede un’espansione internazionale nei prossimi 12 mesi. Un terzo punterà sul mercato europeo e un altro 46,1% a quello mondiale. La strategia funziona, se è vero che l’87,7% delle startup che già operano su scala globale pensa a una ulteriore espansione. Un mercato chiuso, però, non può che aprirsi: nove imprese italiane su 10 pensano di crescere all’estero. Un dato superiore alla media europea.
Lavoro, l’autarchia delle startup italiane
Attraiamo pochi cervelli, e i nostri vanno via
Il 79,1% delle startup è fondato da team e poco più di una su 5 da lupi solitari. Anche se spesso (in un caso su tre) il team è in realtà una coppia. Con due differenze, di sesso e geografia. Le donne ballano da sole più spesso, in un terzo dei casi. E il nord (UK, Olanda e Svezia) preferisce agire in solitaria. Al contrario, il sud opta per il gioco di squadra. Con l‘Italia che primeggia sia per la percentuale di startup fondate in team (l’88,6%) sia per numero medio dei fondatori (3,1).
Le startup hanno in media 10,3 dipendenti (fondatori esclusi). Un dato complessivo che però non rende la distribuzione reale. Perché a far salire la media sono Germania (con 17), UK (con 11,7) e, in parte, Francia (8,7). Numeri che non esprimono solo forza ma anche obiettivi. Molte startup europee mirano alla sussistenza dei fondatori più che all’espansione. Per confermarlo, basta guardare alla proporzione tra founder e dipendenti.
L’Italia, come detto, è il Paese che, più di ogni altro, fa squadra, con in media 3,1 fondatori. I dipendenti medi sono 4,3. Un rapporto, poco più che paritario, che non rappresenta un’eccezione: in Israele e Romania, ad esempio, il rapporto è vicini all’uno a uno. C’è un dipendente per ogni fondatore. In Germania il rapporto è di uno a 6.
All’interno di questo quadro diversificato, c’è una costante: 9 imprese su 10 pensano di assumere nuovo personale nei prossimi 12 mesi. In media le previsioni sono di 6,8 nuovi posti di lavoro per ogni startup. In Italia le nuove assunzioni medie sono 5,1. Significa che, in un anno, le startup italiane prevedono di raddoppiare il numero degli assunti.
Anche tra i dipendenti, come tra i fondatori, le startup di casa nostra sono molto italiane. Se in Europa un terzo degli assunti proviene da un Paese altro rispetto alla sede della società, in Italia la quota si ferma all’8%: il 92% dei dipendenti è italiano. Cifra che dà alle nostre società una connotazione forte, ma sottolinea allo stesso tempo una cronica difficoltà di attrarre talenti. In questa classifica, solo Israele e Polonia sono più autarchici. E qui, ancora una volta, non è questione di Pil ma di ecosistema, regolazione, capacità finanziaria. In Olanda e Svezia, ad esempio, un terzo dei dipendenti viene dall’estero.
I soldi troppo spesso arrivano dalle famiglie
Sì, va bene, i venture capital e il crowdfunding. Ma spesso i capitali iniziali arrivano dalle tasche dei fondatori (soprattutto in Germania, Romania e Olanda) e da quelle delle loro famiglie. Certo, quando si muove un fondo d’investimento, i capitali sono maggiori. Ma il 69,1% degli startupper dichiara di aver avuto “se stesso” tra le principali fonti. E nel 25,1% dei casi amici e famiglia. Vuol dire un’incidenza doppia rispetto ai venture capital (12,6%), poco meno che tripla rispetto alle banche e sette volte quella del crowdfunding.
La Germania primeggia in molte delle classifiche, a dimostrazione di un sistema di finanziamento variegato, che coinvolge VC, business angel e risparmi privati. L’Italia, invece, spicca tra gli incubatori. Più di una startup su 4 passa da lì. Un canale sovradimensionato rispetto agli altri.
Le startup europee hanno raccolto in media 2,5 milioni di euro. Anche qui, però, la media va tarata. Perché aumenta grazie a un gruppo ristretto di imprese. Cioè a quel 2,1% che ha incassato più di 25 milioni di euro. Per il resto, una startup su 4 ha ricevuto meno di 50 mila euro.
Nei prossimi 12 mesi, le giovani imprese si aspettano di raccogliere 3,3 milioni. Un segnale di fiducia complessivo, che però (ancora una volta) va pesato. Perché solo il 2,7% aspira a round oltre i 5 milioni. Mentre una startup su 4 non si aspetta nuovi finanziamenti. Un dato non necessariamente negativo. Nel senso che l’assenza di capitali esterni può significare anche una maggiore autosufficienza. Per cui i fondatori hanno risorse tali da non esigerne di esterni.
Lo conferma il fatto che una quota alta di startup che non aspirano a nuovi finanziamenti vive in ecosistemi sani come Germania (33,8%) e Svezia (26,5%). L’Europa dell’est (con Repubblica Ceca e Romani) è focalizzata su importi più piccoli (fino a 150 mila euro). Francia, Israele e Italia (41,3%) hanno invece una quota notevole di importi medi (tra i 150 mila e il milioni di euro). Per quanto riguarda l’Italia, è possibile aggiungere un’altra osservazione: i round oltre i 5 milioni rappresentano solo lo 0,6%. Solo Repubblica Ceca, Svezia e Romania fanno peggio. Le idee capaci di attrarre grandi investimenti sono poche. Ma occorre fare i conti anche con la giovane età delle startup.
Il futuro: da dove passa la crescita
Una buona notizia: l’81,9% delle startup ha generato ricavi durante l’ultimo bilancio e più del 45% ne ha generato più di 150 mila euro. Alla voce fatturato, emerge la leadership francese: 2 imprese su 5 hanno incassato più di 500 mila euro. L’Italia si mantiene in media con la distribuzione continentale, mostrando (anche nelle startup) una predilezione per le pmi. Il 77% ha generato meno di 150 mila euro.
Come già notato nei dati sul futuro dell’occupazione e dei finanziamenti, gli startupper si confermano ottimisti: il 90% degli imprenditori descrive la condizione attuale come “buona” (36,3%) o “soddisfacente” (54%). Soddisfazione che cresce in Belgio, Olanda, Romania, UK e Svezia. L’Italia conserva un sesto di insoddisfatti. Peggio del 2,2% britannico. Ma meglio di Francia, Spagna e soprattutto Repubblica Ceca e Polonia (dove gli insoddisfatti sono il 50%). Guardando ai prossimi sei mesi, le aspettative si fanno ancora migliori. Il 72% delle startup si aspetta un incremento del proprio business. Anche l’Italia prevede passi avanti, ma con qualche incertezza in più. Gli ottimisti sono pur sempre vicini al 60%. Ma c’è un 7,6% che si attende maggiori difficoltà. Siamo in vetta alla classifica dei pessimisti.
Avviare una startup pensando che fallirà non è certo l’attitudine ideale. Ma colpisce comunque che il 90% dei fondatori sia convinto che la loro impresa vivrà a lungo. E che questa quota sia superiore a quella dei fondatori che prevedono di rimanere nella propria startup (l’85%). Insomma, un mondo in cui le startup sopravvivono all’esperienza dei fondatori. E guardano avanti: due startup su tre si dicono certe di poter vendere in modo profittevole nei primi 10 anni di vita e una sua 4 di guardare alla Ipo come via d’uscita privilegiata.
Prima però la strada da fare è lunga. E passa da tre paletti. Nell’ordine: conquista di nuovi utenti, finanziamenti, sviluppo del prodotto. Sono le priorità immediate indicate da una startup su 2.
Italia da 6-: l’opportunità dagli startupper di ritorno
Per far crescere un’azienda innovativa non bastano idee e capitali. Serve un ambiente che sappia fare da chioccia. Un ambiente fatto di burocrazia snella, scelte politiche, formazione. Com’è messa l’Italia? Il supporto politico all’ecosistema prende un 3,1 (in una scala da 1 a 6). Stesso voto per la capacità di comunicare e promuovere l’innovazione. Un po’ peggio (2,9) la consapevolezza che la politica dimostra sull’importanza delle startup e la capacità di comunicare il mondo dell’impresa nelle scuole (2,8 punti) e nelle università (3,1). Sotto la media (con 3 punti) la facilità di collaborazione tra startup innovative e imprese tradizionali. Se ci fosse una pagella, il voto sarebbe un 6 -, in linea con il resto d’Europa. È sufficiente essere in gruppo?
Gianmarco Canovale, presidente di Roma Startup, offre nel report una sintesi della prospettiva italiana. “L’ecosistema – scrive – è in via di sviluppo intorno ai principali hub del Paese, Milano e Roma”. Le nuove imprese sono nate dal “talento” e “dall’innata creatività italiana”, ma anche la crisi ha rappresentato uno stimolo al cambiamento. I giovani però hanno ancora bisogno di conoscere meglio “il mercato dei capitali”. Il sistema vede “una iper-regolamentazione, un eccesso di incubatori e una mancanza di acceleratori e VC. Mentre buone notizie arrivano dagli spin-off nati dalla ricerca”.
Il talento, continua Canovale, “è un vantaggio competitivo e l’Italia ha le potenzialità per essere leader in diversi settori”, ma c’è ancora molto lavoro da fare. Una spinta può arrivare dagli “imprenditori di ritorno”, capaci di ” importare nuove pratiche internazionali e aiutare la maturazione dell’ecosistema”.
Paolo Fiore
@paolofiore