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Seeds for the Future, arrivato alla 7a edizione italiana, cambia pelle per adattarsi alla nuova normalità. E si allarga a più studenti per offrire sempre più contenuti tecnici e culturali
Curiosità, voglia di imparare, un pensiero rivolto a quello che aspetta gli studenti dopo l’università e l’attenzione degli atenei stessi a una formazione che sempre di più deve essere centrata sul reale fabbisogno di competenze del nostro mercato del lavoro. Sono tanti i punti di vista che abbiamo raccolto dai protagonisti, a vario titolo, del programma Seeds for the Future di Huawei: il punto di vista di chi, da studente, incontra forse per la prima volta una grande realtà multinazionale che opera nel settore della tecnologia; chi ha iniziato da studente e oggi si trova a lavorare proprio in quell’azienda che ha conosciuto durante una edizione precedente di SFTF; infine chi, con la responsabilità di dover modellare il percorso formativo degli studenti, cerca le strade migliori per offrirgli sempre qualcosa di più – anche quando lo stravolgimento delle nostre abitudini impone un cambio drastico dei programmi.
Opportunità nostrane
Partiamo da un punto fermo: l’Italia non è una nazione impreparata sul piano tecnologico, ma soffre di una carenza di laureati in queste discipline che ci impedisce probabilmente di sfruttare appieno alcune opportunità. Ne è convinto il professor Nicola Blefari Melazzi, ordinario della cattedra di Telecomunicazioni a Tor Vergata, che dipinge un quadro in chiaroscuro: “Si parla spesso di 5G – spiega in una chiacchierata con StartupItalia – e delle potenzialità della nuova componente radio: ma la vera rivoluzione per noi è che la rete e i servizi che girano sulla rete oggi si costruiscono anche e soprattutto attraverso il cloud, ed è in questo settore che l’Italia potrebbe avere grandi opportunità. Il nostro tessuto industriale, fatto da PMI, è perfetto per sviluppare questo tipo di applicazioni: abbiamo dalla nostra anche una tradizione di ricerca nel settore, di cui ci siamo persi per strada molti pezzi, ma forse qualche ramo di questa pianta può ancora tornare a fiorire se viene annaffiato un po’”.
Tralasciando l’aspetto politico e strategico della questione, il professore punta il dito soprattutto su quanto è di sua stretta competenza anche in qualità di direttore del CNIT (che in questa edizione ha avuto un ruolo chiave, coinvolgendo la propria rete di docenti che ha fatto da ponte con gli studenti): ovvero la formazione, la creazione di una nuova leva di tecnici con le competenze giuste per svolgere questo tipo di lavoro e per ricoprire quei ruoli che sono estremamente richiesti – e non solo in Italia. Il problema è anche questo: “Non abbiamo abbastanza studenti interessati all’ICT in Italia – spiega – ma fatto ancora più grave si laureano ancora meno di quanti si iscrivano a una facoltà scientifica e in molti, i migliori, finiscono per emigrare all’estero”. Col paradosso che tutto l’impegno profuso dalle università per aggiornare, modificare, modulare la propria offerta formativa finisce per produrre i migliori tecnici e manager che vengono poi assunti da aziende straniere.
Non è quindi solo questione di formare bene uno studente, in quello non siamo secondi a nessuno, ma anche quello di metterlo in condizione di comprendere che in questo settore ha un futuro e che a due passi da casa potrebbe scovare delle opportunità analoghe a quelle che potrebbe incontrare fuori dai confini dell’Italia. Il professor Blefari Melazzi fa degli esempi molto calzanti: i tempi sono maturi per sviluppare applicazioni e servizi per la telemedicina, tema quanto mai attuale, e l’Italia ha le competenze per farlo e pure il bisogno di sfruttare al massimo questo tipo di industria. Poi ci sarebbe il capitolo cybersicurezza, ma qui torniamo al punto iniziale: far comprendere agli studenti che cosa c’è lì fuori ad aspettarli, se possibile farli già conoscere e quasi adottare dalle aziende, farli crescere con loro e ottenere così un importante feedback anche sulla qualità dell’insegnamento che gli viene impartito. Un circolo virtuoso in cui programmi come Seeds for the Future possono giocare un ruolo significativo.
Un po’ di sana curiosità
Innegabilmente stiamo vivendo un momento inedito per l’organizzazione delle nostre vite: stiamo cambiando le nostre abitudini, ci stiamo adeguando a una nuova normalità, stiamo costruendoci nuovi strumenti per fare ciò che spesso e volentieri eravamo abituati a fare in tutt’altro modo. È il caso della scuola e dell’università: momenti sociali e di socializzazione per definizione, che oggi invece vivono una fase transitoria verso un destino ancora incerto. Non è un discorso retorico, questo è davvero un momento in cui si può e si deve cercare di mettere tutto in prospettiva: ed è anche un momento in cui prendere fiato e cercare di immaginare come far fruttare questa fase sospesa tra presente e futuro. Ed è esattamente quanto racconta di aver fatto Sofia Casarin, una dei 50 studenti selezionati da Huawei per l’edizione 2020 di SFTF dopo che aveva presentato la sua candidatura grazie al suggerimento di uno dei suoi docenti.