Se hai una visione del mondo da comunicare, e non lo fai, qualcun’altro lo farà per te: strategie per essere un buon Ceo nell’epoca dei social media (imparando a rivalutare lo storytelling)
Il ceo di un’azienda è un ibrido tra un filosofo e un artista. Come un filosofo, il ceo deve affrontare problemi aperti. Lo nei limiti che gli impongono i fatti e i numeri, e sa che solo i fatti e i numeri non sono in grado di dargli risposte sufficienti. Come un artista invece un buon ceo deve essere creativo, nel tentativo di pensare soluzioni innovative per il proprio business, profittevoli per gli azionisti. Ora, è chiaro che questo è un lavoro assai complicato.
Le semplici tattiche del momento non funzionano, di sicuro non nel lungo periodo. La migliore tattica a lungo termine è sviluppare una visione di successo dentro la quale i problemi diventino risolvibili. Una visione di questo tipo non è una predizione su un futuro determinato.
Piuttosto è una presa di posizione su come il presente può diventare un futuro desiderabile. Questo significa che un grande manager deve avere bene a mente come le cose sono adesso, e di come possono essere migliorate nella propria mente. Non diversamente da quanto fa un maestro di scacchi. E prima o poi questa storia diventa indistinguibile dalla persona che la sta raccontando.
I tre luoghi comuni da sfatare quando parliamo di social media
Il narratore diventa la narrazione. Di conseguenza i problemi di come e fino a che punto questa narrativa può o dovrebbe essere comunicata al mondo sono più complessi del semplice pensare alle pubbliche relazioni o alla pubblicità. Lasciatemi affrontare il “se” prima. Quando si tratta di social media, sembrano esserci tre supposizioni base tra i top manager che non sono nativi digitali.
- Che c’è una cesura netta tra online e offline, con l’idea che la comunicazione genuina e autentica avviene solo al di qua dello schermo, dove le persone possono stringersi la mano.
- Che ogni narrativa, ogni storytelling, è al peggio una follia, al meglio una roba da PR.
- E che ogni storytelling online è ancora più irrilevante, qualcosa da lasciare ai bimbi e ai geeks.
In ogni società dell’informazione matura, queste tre supposizioni sono pericolosi preconcetti. Luoghi comuni.
Non esiste più online e offline
Primo. La cesura online offline è esattamente ciò che i social media hanno reso anachronistico. Negli ultimi dieci anni, il mondo si è spostato «onlife», con persone che organizzano un meeting su Facebook e su Facebook vivono il meeting che stanno avendo, senza cesure.
Nessuno va più onine, noi siamo online, sempre. E il mondo degli affari vive in quella che chiamiamo infosfera 24 ore al giorno, sette giorni su sette.
Secondo. Nell’infosfera, se non stai raccontando la tua storia, non ne sei parte. Questo significa che se non scrivi la tua rarrativa, qualcun altro la scriverà per te. E il risultato potrebbe essere molto meno piacevole.
Perché lo storytelling è diventato vitale per un manager
Terzo. Ne consegue che lo storytelling (inteso come narrativa di una visione) sta diventato vitale nel mondo del business. E’ un punto cruciale, che richiede un’analisi. Con una narrativa ben tessuta, un ceo è in grado di influenzare la mente delle persone. La possibilità di persuadere è preziosa. Ad un ceo può dare un profilo autorevole per le cose del momento e gli obbiettivi futuri, crearsi un’audience rilevante, e quindi accrescere le possibilità che il futuro immaginato possa diventare realtà. Ovviamente i rischi non devono essere sottovalutati. In un mondo costantemente bombardato da ogni tipo di media, la gente ricorda quattro cose: ciò che è totalmente bizzarro, ciò che è davvero sciocco, ciò che è eccezionalmente intelligente, e ciò che è stranamente silenzioso.
Non c’è bisogno di spiegare i rischi implicati nei primi due punti. Il terzo è altrettanto ovvio: ogni comunicatore vuole essere ricordato per aver detto qualcosa di intelligente. Quindi meglio evitare la pura ripetizione di pezzi di notizie che diventano vecchie in poco tempo, e le previsioni, che sono rischiose almenoché non sono banali.
Quello che i lettori vogliono sono intuizioni, commenti sull’attualità, idee che non hanno visto altrove, una prospettiva che getta nuova luce su un tema importante, una risposta ad una questione di largo interesse. In breve, chi legge vuole partecipare alla vita mentale del ceo attraverso contenuti di valore. Questo può sembrare spiacevolemnte intrusivo, ma ha un grande vantaggio: una comunicazione personale è più persuasiva. Il pubblico può collegare più facilmente il contenuto ad una figura umana, e, entro certi limiti, ci potrebbero essere meno rischi offrendo buone idee.
Dovrebbe questa narrativa essere fatta su Facebook, Twitter o post su blog? La risposta è un cauto sì
E’ il quarto punto, che è più problematico, perché il silenzio è una forma potentissima di comunicazione, e a volte può essere davvero rumoroso, in particolare se la sua origine è di un profilo influente e da cui ci si aspetterebbe un intervento. Le persone lo ricorderanno. Per questo bisogna usarlo con coscienza.
A volte non esprimersi è peggio che farlo, ma con delle eccezioni
Non esprimersi su una questione rilevante che riguarda il proprio business, o peggio rifiutarsi di commentare anche quando pubblicamente richiesto, potrebbero essere delle dannose forme di comunicazione che potrebbero danneggiare la fiducia in un Ceo. Starsene zitti è un rischio che un manager può difficilmente correre il rischio di prendere. Il che significa che presentare una narrativa convincente è davvero l’unica strategia per evitare di essere presi tra l’imbarazzante bizzarria o sciocchezza da un lato, e la goffaggine del silenzo dall’altro. Un Ceo dovrebbe comunicare sempre la versione che lo identifica.
Consideriamo ora «fino a che punto» questo genere di comunicazione dovrebbe andare. Non sto parlando di contributi occasionali per giornali o magazine piuttosto che interviste alla televisione. Sto parlando della presenza sui social media. L’identità di un Ceo è la sua visione, che si presenta come una narrativa rivelata in piccoli episodi di comunicazione. Dovrebbe questa narrativa essere fatta su Facebook, Twitter o post su blog? La risposta è un cauto sì. Cauto perché ciò presenta altri problemi.
Il primo è la possibilità di comunicare qualcosa di sbagliato. Se fatto inavvertitamente, è meglio riconoscere lo sbaglio e scusarsi il prima possibile. Se fatto deliberatamente, è di cruciale importanza riconsiderare la propria strategia subito. Non mentire mai. La verità tende a venire fuori, prima o poi, specialmente se miliardi di persone sono online guardano.
Comunicare male, il peggiore dei mali possibili: meglio porvi rimedio
L’altro è che si può comunicare male. Analisi poco chiare, messaggi indiretti messi tra le linee, commenti inutili, tivialità… Queste cattive comunicazioni sono molto più dannose del silenzio, e abbiamo già visto quanto cattivo il silenzio può essere. Alla fine può capitare di sbagliare a comunicare. I social media sono bestie insaziabili: una volta scatenate, devono essere nutrite di contenuti regolarmente, anche quando si ha poco o nulla da condividere. Possono sopportare qualche ripetizione, ma non il silenzio. Una pagina Facebook, o Twitter semi abbandonata, è peggio che non comunicare affatto. Sembrano sciatte, non curate.
La definizione di Ceo (Chief executive officer) è usata dal 19 secolo. I Ceo hanno avuto duecento anni per raffinare le proprie tecniche di comunicazione in un mondo governato dai mass media che, per molto tempo, non hanno richiesto cambi epocali. Andrew Carnegie, Henry Ford, Andrew W. Mellon, J. P. Morgan, e John D. Rockefeller non twittavano, e nemmeno lo faceva Abraham Lincoln.
Le cose sono molto diverse oggi. Barack Obama lo fa, e pure Bill Gates. I top manager non dovrebbero sottostimare l’importanza di essere presenti sui social media. E’ un’opportunità che vale tutti i rischi che implica. La leadership sta cambiando significativamente con la velocità e al diffusione della comunicazione.
Oggi il vecchio modello del delegare il potere decisionale, dato in tempi passati e esercitato per un certo periodo di tempo, è stata rimpiazzata sia nella politica che nel business, da un continuo coinvolgimento di tutti gli attori in campo. E questo, nell’età della globalizzazione, significa potenzialmente il coinvolgimento del mondo intero.
Ci si aspetta dai leader che condividano il loro punto di vista, la loro visione delle cose, e che lo facciano in una aperta, continua, conversazione con in social media con una narrazione continua che, alla fine, rappresenta sia chi sono loro sia la voce forte dell’azienda che rappresentano. Questo è dispendioso, delicato impegno di capitale importanza. Non ci si può improvvisare, e un Ceo dovrebbe porbabilmente consultarsi con un team di esperti a cui si possa affidare, all’occorrenza, attraverso il giusto social media. Rispettando i temi, la maniera, il flusso di informazioni che in sostanza dà forma all’identità della leadership del Ceo e dell’azienda.
E’ solo questione di tempo prima che il 21esimo secolo veda l’emergere del Chief Executive Communicators, che avrà la stessa importanza per un Ceo quanto quella dei suoi avvocati più fidati.
di Luciano Floridi
Autore di CheFuturo!
Questo post è stato tradotto da un articolo apparso su EgonZehnder