Ogni sera la docente saluta i suoi alunni e anche i loro genitori regalando un nuovo vocabolo da imparare
A sentirla parlare t’incanta. E probabilmente lo sa fare anche con i suoi alunni “de visu” ma anche in forma virtuale. Carla Romoli, 61 anni, laureata in lettere antiche, professoressa di italiano da oltre trent’anni, ha conquistato i suoi studenti e i loro genitori mandando ogni sera la buonanotte via WhatsApp con una parola da scoprire.
Ha iniziato due mesi fa con le seconde ma ora dopo cena deve inviare il suo messaggio anche alle altre tre classi dove insegna perché erano invidiose delle attenzioni che la prof dava ai più piccoli.
E così da un “gioco” nato quasi per caso è nata una consuetudine e una prassi didattica che fa scuola. Se infatti nei mesi scorsi la stessa ministra Valeria Fedeli, a seguito dei fatti che avevano coinvolto un docente che aveva abusato di una minorenne proprio via WhatsApp, aveva manifestato dubbi sull’uso dei social tra docenti e alunni, la professoressa della secondaria “Lavinia Fontana” di Bologna dimostra che non è certo un cellulare o un social a creare problemi ma chi lo usa e come lo adopera.
La tecnologia per tessere rapporti fuori dalla scuola
La prof Romoli d’altro canto non ne fa mistero: lei la tecnologia l’ha sempre usata per mantenere dei rapporti di là della campanella e persino con quei ragazzi che ormai hanno lasciato le medie. Un approccio senz’altro intelligente che non ha trovato ostacoli tra i colleghi e nemmeno con la dirigente della scuola tanto meno con mamme e papà. Anzi ogni sera ad attendere la parola, il nuovo vocabolo che la professoressa insegna come “buonanotte”, ci sono anche i genitori che imparano pure loro qualcosa.
L’intervista
Abbiamo contatto la professoressa Romoli per farci spiegare come funziona questa sua “invenzione” didattica che l’ha resa famosa senza volerlo.
Perché le è venuto in mente di inviare ogni sera una parola ai suoi alunni? Una bizzarra idea?
“Lo spunto l’ho avuto da una trasmissione radiofonica dove il giornalista fermava le persone e chiedeva loro cosa significasse la parola “motto”. Quella sera ho inviato un messaggio ai miei allievi dicendo loro che ero certa che avrebbero sicuramente saputo rispondere in maniera corretta. Allo stesso tempo mi sono resa conto che se avessero chiesto qualche altra parola forse non avrebbero saputo rispondere. Una riflessione che ho condiviso via WhatsApp”.
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Perché ha sentito questa necessità?
“Mi piace molto l’etimologia delle parole, scoprire da dove vengono, la loro origine greca o latina. Il lessico dei nostri ragazzi si è molto impoverito. Rispetto a solo una decina di anni fa, le nuove generazioni conoscono molti meno termini. I ragazzi leggono molto meno, vivono in un mondo che parla solo per immagini. Che sia voglia o no c’è una massiccia presenza della lingua inglese nel nostro vocabolario e spesso si sostituiscono i vocaboli”.
Immaginiamo di essere dei suoi alunni. Quando lei entra in azione?
“Normalmente tra le 20 e le 20,30. E’ capitata qualche sera che ho inviato la parola prima o dopo. I genitori aspettano anche loro. Anzi pensi che se lei oggi mi chiama è perché proprio un genitore ha segnalato a La Repubblica il fatto”.
Che parole invia?
“L’idea è nata da una lettura fatta in classe. Ho scelto parole che abbiamo incontrato nella Divina Commedia: baratro, abisso, voragine. Invio loro anche sostantivi che incontriamo nella quotidianità. Un esempio. Siamo andati alle Collezioni comunali d’Arte e la guida ha nominato la parola “podagra”. Ho visto i loro sguardi perplessi così la sera ho inviato loro l’etimologia di quel sostantivo”.
E i ragazzi come reagiscono?
“Rispondono sempre. Tutti mandano un ringraziamento. Qualcuno fa persino dei collegamenti con quanto hanno appreso o quanto conoscono”.
Eppure lei ha 61 anni, non è certo una giovane professoressa abituata a usare questi strumenti?
“Ma lei non sa che ho quattro figli. Sono loro che mi hanno insegnato ad adoperarli e ne sono felice. Bisogna stare al passo con i tempi anche a scuola”.
Professoressa Romoli, qualche collega potrebbe storcere il naso per questo uso che fa del social con i ragazzi…
“L’uso di WhatsApp mi ha aiutato molto. Sono una docente tradizionale, in classe ho delle pretese. L’uso di un altro mezzo quando ormai si è svincolati dall’aula mi ha permesso di avvicinarmi a loro e così gli alunni hanno imparato ad adottare un certo registro linguistico e non dimenticano la differenza del ruolo. La presenza di un adulto permette di tenere sotto controllo la situazione”.
Quindi nessun dito puntato contro la tecnologia?
“Il mezzo non ha alcuna colpa, è il fruitore del mezzo che è colpevole. Se viene usato in maniera sensata non vedo perché non possa essere utile. L’importante è avere ben chiaro che ci sono dei limiti e delle regole che non vanno dimenticate. La chat l’ho sempre avuta e l’ho ancora con degli ex alunni che ormai hanno finito il liceo. E’ importante perché permette di mantenere un legame affettivo. Pensi che tutti hanno il mio contatto ma non ho mai ricevuto uno scherzo telefonico”.