La parità di genere non è ancora stata completamente raggiunta neppure nel mondo accademico e nella ricerca scientifica. Le buone pratiche del MIUR indicate in un documento dedicato
Parità di genere nelle Università e negli Enti di ricerca, ecco le raccomandazioni del MIUR. L’analisi riportata nel documento ‘Indicazioni per azioni positive del MIUR sui temi di genere nell’Università e nella Ricerca’, elaborato dal Gruppo di lavoro ‘Genere e Ricerca’ è dettagliata e rappresentativa di una realtà sotto gli occhi di tutti: da una parte la parità di genere è un obiettivo centrale a carattere internazionale, dall’altra ancora non è stata completamente raggiunta. In Italia, per esempio c’è ancora disuguaglianza nelle carriere e vale anche nel settore della ricerca scientifica e del mondo accademico. Che fare allora? Intanto, cercare di oltrepassare gli stereotipi ancora esistenti per quanto riguarda i percorsi nella formazione; inoltre, cercare di promuovere la carriera delle donne, nel mondo accademico e della ricerca.
I dati
Il documento del MIUR traccia un quadro della situazione italiana a partire dal focus ‘Le carriere femminili nel settore universitario’, febbraio 2016 e avvalendosi degli indicatori attraverso le banche dati del MIUR. “La diseguaglianza fra i sessi esiste e si aggrava nel corso della carriera”, si legge nel documento. E poi mostra i dati: nel 2014 è pari al 50,6% la percentuale di donne titolari di assegni di ricerca; c’è una percentuale del 45,9% per i ricercatori universitari, del 35,6% per i professori associati e del 21,4% per i professori ordinari. Inoltre, “si nota che questa forbice è maggiore nei settori STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics)”. E il divario in questi settori – si specifica nel documento – è più marcato rispetto alla media europea. I dati presentati nel documento non si discostano troppo da quelli del focus ‘Il personale docente e non docente nel sistema universitario italiano – a.a 2016/2017’ (Elaborazione su banche dati MIUR, DGCASIS – Ufficio VI Statistica e Studi), del gennaio 2018. In questo report si evidenzia come le donne rappresentino circa il 40% di docenti e ricercatori e come più della metà (il 50,7%) siano titolari di assegni di ricerca Man mano che si sale la presenza delle donne diminuisce (46,6% tra i ricercatori, 37,2% tra i professori associati, 22,3% fra gli ordinari.
Parità di genere, quali ostacoli?
Nel documento si nota come la disparità di genere riguardi sia i diversi settori disciplinari sia la differenze presenza di uomini e donne nelle posizioni decisionali e in quelle ausiliarie sia la dimensione territoriale. Ma quali sono le cause della mancata integrazione ancora oggi, dove la parità fra i sessi è ritenuta una priorità? Anche in questo caso il documento del MIUR è chiaro. Intanto, la possibile presenza di stereotipi e pregiudizi più o meno inconsci nella rete delle istituzioni nei confronti di giovani studiose. Sia chiaro, non si deve fare di tutta l’erba un fascio, ma è chiaro che possibili pregiudizi possono influenzare sia la domanda formale da parte delle istituzioni sia quella informale. Poi ci sono i fattori esterni. Risulta ancora difficile, per esempio, la conciliazione tra vita professionale e familiare. In questo senso la presenza o meno dei servizi legati alla famiglia diventa fondamentale per le donne.
Obiettivo: parità di genere
Gli effetti della mancata integrazione, però, sono notevoli. Infatti, evidenzia il documento, non solo “si privano ingiustamente le persone di un sesso della possibilità di sviluppare le proprie potenzialità” ma rappresenta “soprattutto un problema di efficienza ed efficacia della politica della ricerca”, per esempio escludendo le persone più capaci di un sesso a favore di quelle dell’altro sesso. Ecco allora alcune delle ‘buone pratiche’ contenute nel documento. Intanto, incoraggiare la presenza paritaria dei due sessi nei gruppi di ricerca (anche per quanto riguarda le posizioni decisionali all’interno dei progetti di interesse nazionale finanziati dal MIUR) attribuendo punteggi positivi nella valutazione a quei gruppi in cui ogni sesso è rappresentato almeno per il 40%.
Importante è anche curare la formazione dei valutatori dei progetti di ricerca rispetto a quei fattori che potrebbero causare la poca rappresentanza di donne nel team. Per quanto riguarda la selezione di ricercatori e dei docenti di I e II fascia, “occorre comporre le commissioni concorsuali tenendo conto dell’equilibrio di genere”; inoltre, “dotare tutte le Università dello strumento del bilancio di genere al fine di monitorare il proprio progresso in termini di pari opportunità di genere, promuovere una presenza bilanciata dei due sessi in tutte le istituzioni di eccellenza, modificare le scelte linguistiche in tutti gli atti amministrativi, formativi, scientifici e progettuali, che possano avere effetti discriminatori anche involontari verso uno dei due sessi”.
Insomma, i progressi verso la parità di genere devono essere monitorati, devono esserci strutture di ricerca e iniziative formative sui temi di genere e vanno introdotte specifiche misure volte al riequilibrio delle componenti maschili e femminili in organismi, commissioni, comitati e gruppi di ricerca.
Parità di genere come crescita sociale
“Il documento presentato mette in evidenza – sottolinea la ministra Valeria Fedeli – come la diseguaglianza determini una perdita di talenti, di saperi, di valore nella ricerca e nell’insegnamento universitario. La parità di genere è un diritto fondamentale, un principio sancito dalla nostra Costituzione”. Non solo: la parità è segno di crescita sociale. “La valorizzazione delle competenze femminili è una questione che interessa l’intero sistema Paese e il suo tessuto produttivo – continua la Fedeli – che deve potersi avvantaggiare dall’avanzamento della conoscenza, dall’arricchimento intellettuale, dal guadagno economico culturale che ci attendiamo dal perseguimento della parità in tutti gli ambiti”.