Domenico Aprile, insegnante, racconta come ha trattato gli eventi terroristici del 13 novembre con i suoi studenti. Nella convinzione che un’ora di dialogo e riflessione valga più di tante nozioni imparate a memoria
Venerdì 13 novembre 2015 sarà un’altra di quelle giornate da ricordare. Purtroppo non per un evento lieto, ma per la sequenza di attacchi terroristici che ha sconvolto Parigi ed il mondo occidentale che, troppo spesso, risveglia le proprie coscienze solo quando avverte la sensazione di essere minacciato direttamente. Mi è stato chiesto, da più parti, se e come avessi affrontato l’argomento in classe. E qualche amico e collega, sui social network, mi ha chiesto (sebbene in modo costruttivo) di non cadere nella scontata retorica. Si, ne ho parlato. Non subito. Non il giorno dopo.
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Per due motivi. Il primo: evitare proprio l’errore di incorrere in un po’ di sana retorica filo-patriottica o, per converso, nella deriva demagogica del tipo “siamo noi occidentali ad essercela cercata”. Il secondo: essendo andato a letto prima degli avvenimenti ed essendomi recato presto a scuola, non avevo una percezione chiara e definita della portata dell’accaduto.
In questi casi, preferisco tacere. Ho taciuto anche sui social network. Mi sono messo in stand-by, mi sono imposto di riflettere.
Domenica sera la mia Dirigente mi ha chiesto di postare il comunicato del ministro Giannini sul sito dell’Istituto. L’ho fatto e mi sono detto che, indipendentemente da quel comunicato, io il giorno dopo avrei trattato l’argomento in classe. E, se fosse servito, anche nei giorni successivi. E così è stato. Non perché me lo avesse “imposto” (che, poi, così non era: basta leggere il comunicato del Miur) il ministro, ma perché ho ritenuto giusto farlo. E, soprattutto, perché me lo hanno chiesto i ragazzi.
Forse perché conoscono la mia indole: non considero perso un solo minuto di lezione, se serve a formare la coscienza critica.
Molto meglio che imparare a memoria un modello logico di un database. Per quello c’è sempre tempo. Ci sono i libri. Mentre ciò che era accaduto era contemporaneo e, soprattutto, non c’era (ancora) su alcun libro.
Ed allora mi son fatto coraggio e mi son documentato. Partendo, però, da una domanda: se io fossi uno studente, cosa mi aspetterei dal mio docente? In prima Liceo (1985/86) vissi da inconsapevole protagonista la catastrofe di Chernobyl: chi chiese il mio parere? Nessuno! E, infatti, non ne ho avuto per parecchio, di parere. La caduta del muro di Berlino (1989), invece, l’ho vissuta molto più con coscienza: nel marzo del 1990 ero in viaggio di istruzione (un lunghissimo ed interminabile tour Lecce-Monaco di Baviera-Amsterdam-Annecy-Ginevra-Lecce) in una Europa che stava cambiando e nella quale si respirava davvero il Wind of Change (ehhh…gli Scorpions…).
Da dove parto allora, mi son chiesto? Dalle sensazioni dei ragazzi. Soprattutto dei più giovani. Voglio capire cosa ne pensano.
Ma con una doverosa premessa: ogni idea ha pieno diritto di cittadinanza, eccezion fatta per la deriva razzista. Quella non la tollererò. Ed allora, il giorno dopo (e quello dopo ancora), ne ho parlato in almeno 5 classi diverse. Partendo dalle impressioni dei ragazzi. Dalle loro sensazioni.
Vado su google maps e cerchiamo la Siria. Individuiamo l’area. La lasciamo in sovraimpressione sulla LIM mentre discutiamo. Proviamo a ricordare che quest’area ha della caratteristiche geografiche (anche nel senso fisico: il Petrolio e il Metano) e storiche che la configurano come una porta naturale tra occidente e oriente. E’ un’area dove sorge anche uno Stato che non è arabo: Israele. E’ un’area dove convivono tre religioni monotesite che hanno in comune molto, compreso Gesù Cristo. Il 10% della popolazione è cristiana. Da quanto esiste lo Stato Siriano? Da quanto quello Francese? E il colonialismo anglo-francese? “Si, ma ci stanno invadendo”. “Si, ma le Crociate erano dirette in quell’area, vero prof?”. Ne discutono loro, i ragazzi. Che hanno voglia di collegare conoscenze, impressioni, sensazioni. Hanno voglia di capire e, soprattutto, farsi una idea.
A dire il vero, ero preoccupato. Pensavo avrei dovuto intervenire da subito (e molto spesso) per evitare quella deriva razzista e xenofoba che, invece, non c’è stata.
La sensazione più comune dei ragazzi è quello di smarrimento. Perfino chi proponeva di “bombardare tutti i Paesi Arabi”, restava perplesso a pensare davanti ad un compagno di classe (un coetaneo!) che opponeva un ragionamento del tipo “e cosa risolveremo?”.
“Ok, ragazzi, proviamo ad affrontare la questione in modo sistemico ed organico”.
Punto primo: che ruolo hanno il web e i nuovi media? Partiamo dai fatti.
“Prof. i giornali on line ne parlano da ieri sera”.
“Prof. su Wikipedia qualcuno ha già creato una pagina!”
Mentre le analizziamo (ovviamente stando attenti a non visualizzare immagini eccessivamente cruente), facendoci insieme (learning community) una idea più precisa e approfondita dell’accadimento, proviamo a selezionare fatti da opinioni. Ed è una di quelle cose che non sempre i ragazzi sanno fare. Poiché gli diamo gli strumenti (il web), ma spesso senza alcun “manuale di istruzioni”. Qualcuno dal fondo dell’aula: “Prof. ma lo sa che ieri scrivendo su google translate delle frasi, la traduzione era preoccupante e non corrispondeva? Lo hanno hackerato? Se si scriveva ‘Ci vedremo presto’, la traduzione era Inshallah! Prof, ho lo screenshot. Se vuole la mando sul gruppo di Telegram!”
“Ok, mandala”.
Verifico che è vero:
“Prof., ma quindi l’ISIS ha hackerato Google Translate?”
“No, ragazzi, calma”.
Cerco di spiegar loro (senza tirar fuori paroloni come google bombing e roba simile) che probabilmente è soltanto un bug del sistema e che non abbiamo un termine di paragone. Ad esempio: cosa succedeva prima del 13 settembre per queste traduzioni? Ricordo loro che, qualche tempo addietro, digitando il cognome del Pontefice (Bergoglio) Google rispondeva con “l’Anticristo”. (Andare su Google Immagini per credere)
L’occasione è ghiotta per spiegare due cose:
- l’uso consapevole del web e la disponibilità del dato: partire dal dato per costruire l’informazione e, quindi, conoscenza
- il web è (almeno) 2.0, ossia presuppone l’interazione/feedback degli utenti che possono modificare (anche google translate, segnalando “erronee traduzioni”) il senso delle frasi.
Tutto ciò si aggancia alla cittadinanza consapevole, la stessa che hanno dimostrato migliaia di cittadini musulmani con l’hashtag #notinmyname. La stessa che hanno dimostrato tantissimi cittadini francesi che, non cedendo alla giustificata e comprensibile paura, hanno coniato l’hashtag #PorteOuverte.
Due facce della stessa medaglia.
Due segnali di apertura importante verso “l’altro”.
E come non ricordare, allora, su quali basi si fonda l’Unione Europea? Analizziamo il Manifesto di Ventotene: “la lucida follia hacker” di Altiero Spinelli, Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi. Mentre l’Europa è preda di spinte totalitarie, loro pensano e scrivono (agosto 1941) un Manifesto “Per un’Europa libera e unita”. Concludendolo con la frase “La via da percorrere non è facile né sicura, ma deve essere percorsa e lo sarà.”.
Finita l’ora, esco dall’aula. I ragazzi non fiatano. Molti di loro fissano la LIM e, mano al mento, riflettono.
Obiettivo raggiunto. Non avrò 20 programmatori per classe. Ma 20 persone, probabilmente si.