Roger Duguay è socio dirigente di Boyden, una delle più importanti società di head-hunting. Il suo lavoro consiste nel trovare candidati che possano ricoprire ruoli dirigenziali, presidenziali o direttivi sia nel settore privato che in quello pubblico. Il suo metodo di selezione è in parte tradizionale e in parte originale. Ed è una selezione volta a cercare non il candidato perfetto ma l’essere umano più adatto per una specifica posizione lavorativa, con le sue vulnerabilità e le sue cicatrici.
I colloqui di Roger Duguay
Quando cerca un top manager, il colloquio dura almeno due ore e ai suoi migliori candidati pone domande inattese, del calibro: «Parlami della tua vita personale». Roger Duguay vuole capire cosa fanno nel tempo libero, cosa leggono, che esperienze vivono e se «lavorare duramente» è la sola attività della loro vita. In quest’ultimo caso il candidato sarà scartato perché, secondo molte ricerche, tra cui una della Stanford University, dopo aver lavorato un certo numero di ore in una settimana la produttività si riduce. E la probabilità di commettere errori, incorrere in incidenti e subire infortuni sul lavoro aumenta considerevolmente.
«Su una scala da 1 a 10, a che punto sei rispetto alla persona che vorresti essere?». Dieci non è la risposta giusta perché servono persone umili e disposte a migliorarsi in un mondo che cambia rapidamente. Serve adattabilità e curiosità. «Per me il fatto che tu abbia fatto un buon lavoro negli ultimi cinque, dieci anni non è più una garanzia del fatto che tu sarai un buon candidato da qui a due anni», ha dichiarato Duguay a Business Insider.
Performare non significa perfezione
«Dimmi il motivo esatto per cui non dovrei assumerti per questo ruolo». Duguay vuole trovare qualcuno che sia sicuro di sé al punto da mostrarsi vulnerabile piuttosto che spavaldo. Come afferma Brené Brown, docente all’Università di Houston, «le persone che non provano vergogna non hanno capacità di immedesimarsi o di creare connessione».
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Quando si tratta guidare un’azienda verso il successo — generando maggiori entrate, acquisendo nuovi clienti e mantenendo quelli esistenti — il leader deve rendere protagonista la propria squadra nutrendo l’idea che le persone che lo compongono sono la chiave del successo. Si tratta di individui, non di macchine, ognuno con le proprie vulnerabilità e cicatrici. Tuttavia, se il leader stesso non è disposto a essere autentico, sarà difficile per lui mostrare tolleranza ed empatia verso il proprio team, soprattutto quando le cose vanno male.
Per Duguay questa ultima domanda è molto importante: «Se dovessi fare tutto da capo, c’è qualcosa negli ultimi cinque anni che avresti fatto diversamente?». Se alla domanda la persona non è in grado di ammettere piccoli errori o raccontare errori più gravi che ha commesso negli ultimi cinque anni, Duguay non lo ritiene il candidato giusto per ricoprire incarichi dirigenziali. Performare non significa perfezione del fare o dell’essere.
Un buon leader, secondo lui, deve essere onesto riguardo ai propri errori e predisposto ad apprendere una lezione utile da essi. Elencare le cadute non solo è un atto di coraggio, ma il segno del tentativo di essersi messi in gioco, e di aver colto, da quelle sconfitte, un’opportunità per imparare. E mostrare le proprie cicatrici è per Duguay segno di una leadership autentica e forte.
My best mistake
In un episodio del JJ Redick Podcast, il CEO di Goldman Sachs, David Solomon, ha detto di aver imparato l’importanza di ammettere i propri errori. «Posso essere molto deciso, molto convinto delle mie opinioni, ma cambio anche idea. E sono disposto a cambiare idea e ammettere che ho sbagliato, anche se sono stato fermo su una certa posizione per un certo tempo».
Ci sono, per fortuna, anche molti esempi di aziende che reputano fondamentale capire il mindset autentico delle persone, che creano incentivi per coloro che sono disposti a riprendersi dopo una caduta e, cosa più importante, che sono in grado di riconoscere il tentativo di riprovarci piuttosto che limitarsi a giudicare il fallimento. La NASA, per esempio, non predilige esclusivamente le persone che hanno solo storie di successo da raccontare, perché l’errore è parte integrante del lavoro di ricerca di ingegneri, astrofisici e scienziati. Tanto da dedicare agli insuccessi una pagina del sito dal titolo My Best Mistake.
Il CEO della General Electric, Jack Welch, nel suo ventennale mandato dal 1981 al 2001, pare selezionasse le persone sulla base della loro capacità di risollevarsi a seguito di una caduta. Dopo essersi inizialmente lasciato impressionare dai curriculum di successo e dalle impressionanti carriere accademiche di alcuni candidati, comprese che in effetti cercava persone piene di passione e con uno spiccato desiderio di fare, arrivando ad affermare che «un curriculum non può dirmi un granché sulla loro fame interiore».
In un ospedale di Boston i medici prediligono i neolaureati che hanno sbagliato percorso di studi, quelli che si erano iscritti inizialmente a un’altra facoltà, per poi mollare tutto una volta comprese le loro reali passioni. Voti poco brillanti, test falliti, prove vinte ed esami non superati raccontano il passato, ma non sempre sono in grado di fare intuire dove si potrebbe arrivare una volta individuata la propria vera vocazione.
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Fino a qualche decennio fa, le carriere erano continue e solo di rado si cambiava o si perdeva il lavoro. Nel presente e ancora di più in futuro prevarranno la discontinuità e il cambiamento. La permanenza sul mercato del lavoro sarà caratterizzata da continui cambiamenti di ruoli, posizioni, livelli. Saremo costretti a osare, a rischiare e dunque a fallire. E a rendere queste deviazioni parte integrante del nostro storytelling. La nostra storia è fatta anche di cadute, insuccessi e occasioni perse. Riconoscerli, confessarli, considerarli preziosi per il proprio percorso di crescita è un atto di coraggio e di rivoluzione!
Le 3 regole d’oro
Riportare alla mente insuccessi ed errori del passato dà un senso a ciò che abbiamo realizzato e a quello che non è ancora accaduto. Le 3 regole sono quindi 3 domande che è bene porsi per evitare di essere colti da sorpresa se un giorno incontrerete un selezionatore che fa domande à la Roger Duguay. Ma potrebbero anche essere tre domande fondamentali da porre ai vostri candidati, ai potenziali soci o alle startup che state valutando o su cui volete investire per capire meglio chi avete di fronte. C’è qualcosa negli ultimi cinque anni che avresti fatto diversamente? Che cosa hai appreso dai tuoi errori? Hai, lungo il percorso, perso qualcosa che vorresti recuperare?
E voi che lezione avete appreso? Se volete raccontarmi la vostra storia di fallimenti e lezioni apprese, scrivetemi qui: redazione -chiocciola – startupitalia.eu