Nel nostro longform domenicale Giovanna Cosenza ci accompagna in un viaggio alla scoperta di ciò che cercano le organizzazioni e di quel capitale umano che esce dai percorsi accademici umanistici. Scardinando pregiudizi e luoghi comuni
Il pregiudizio per cui chi studia scienze umane incontra difficoltà a trovare un lavoro stabile, coerente con ciò che ha studiato e ben pagato, è ancora duro a morire. Al contrario, già da tempo molte ricerche – a partire dal “Project Oxygen” che Google avviò nel 2009 – mostrano che il mercato del lavoro richiede (e sempre più richiederà) caratteristiche come creatività, pensiero laterale, curiosità, capacità di lavorare in gruppo: sono le cosiddette soft skill, che si acquisiscono al meglio nei percorsi di studio umanistici. Inoltre, i dati indicano che la combinazione fra competenze umanistiche e tecnico-scientifiche è già oggi molto fruttuosa – e lo sarà sempre più – in termini sia di valorizzazione professionale, perché permette di accedere alle mansioni più innovative, sia di remunerazione, perché favorisce l’accesso ai ruoli di leadership.
Scienze umane e senso di inferiorità
Eppure, è da molti decenni che chi preferisce “l’italiano alla matematica”, come si dice, coltiva spesso, fin dalle scuole primarie, una sorta di senso di inferiorità nei confronti di chi preferisce la matematica. Un sentire negativo che si mantiene, e perfino peggiora, se si scelgono scuole superiori e studi universitari centrati su materie umanistiche. L’idea, più o meno inconsapevole, è che chi non ama la matematica e le materie scientifiche se ne tenga a distanza perché “non è capace”, “non ci riesce”. Viceversa, chi le ama sarebbe “più capace” o addirittura “più intelligente”. Il nesso fra questo senso di inferiorità e la svalutazione delle lauree umanistiche a favore di quelle STEM (Science, Technology, Engineering, and Mathematics), di cui ho scritto qualche settimana fa, è evidente.
Una profezia che si autodetermina
Attenzione però: non sto dicendo che le cose stiano davvero così, ma che questa svalutazione e auto-svalutazione sono tanto diffuse quanto difficili da scardinare, perché fanno parte di stereotipi ormai molto consolidati. Fra l’altro, per il noto fenomeno della profezia che si autodetermina: i bambini e le bambine che si sentono meno capaci in matematica (e affini) ottengono di fatto risultati inferiori in quelle materie, perché le affrontano con ansia, tensione e altre emozioni negative. Tutto ciò finisce per confermare e nutrire il loro credersi meno capaci. E così via, in un circolo vizioso che si riproduce nella vita adulta.
Le intelligenze multiple
Tuttavia, fin dagli anni Ottanta alcuni studi di psicologia cognitiva hanno evidenziato come l’intelligenza logico-matematica sia solo una delle tante di cui gli esseri umani sono dotati. La teoria delle intelligenze multiple, elaborata dallo psicologo statunitense Howard Gardner, docente a Harvard – la cui fama internazionale risale al libro Frames of Mind del 1983 – è la più celebre di questo filone. Negli anni, Gardner ha individuato fino a nove tipi di intelligenza, contestando l’abitudine diffusa di fare come se ci fossero solo due tipi fondamentali di abilità intellettive, per giunta contrapposte: quelle linguistiche e quelle logico-matematiche.
La teoria di Gardner è stata criticata da più parti, perché considerata più impressionistica e adatta alla divulgazione che verificata da evidenze neurofisiologiche. Indipendentemente dalle critiche, di cui alcune fondate, resta vero che le scienze cognitive hanno da tempo una visione della mente molto più sfumata e integrata di quanto siamo abituati a pensare. E anche le neuroscienze, fin dagli studi di Antonio Damasio nei primi anni Novanta, concordano sul fatto che la razionalità umana non sia mai – nemmeno quella logico-matematica – scollegata dalle emozioni, ma anzi se ne nutra per produrre i risultati migliori.
Il mercato chiede competenze integrate
È dunque sull’idea che le abilità linguistiche e quelle logico-matematiche siano separate, come se fossero due mondi che non hanno nulla a che fare l’uno con l’altro, che si basa la scissione fra studi umanistici e tecnico-scientifici, condivisa non solo dal senso comune, ma purtroppo anche dal sistema educativo e universitario dominante nei Paesi sviluppati – a parte poche eccezioni e sperimentazioni. Ed è sul mito di una razionalità astratta e ideale, la quale funzionerebbe tanto meglio quanto meno condizionata da emozioni, relazioni umane e questioni pratiche, che si basa la sopravvalutazione degli studi tecnico-scientifici.
Tutto ciò non favorisce la contaminazione fra saperi, competenze e capacità, di cui invece hanno bisogno i settori più innovativi del mercato del lavoro. Ma non è in gioco solo l’innovazione. L’indagine del World Economic Forum “Future of Jobs Report 2023”, uscita il mese scorso, mette l’indice sulla inevitabile perdita di posti di lavoro che la diffusione delle intelligenze artificiali e dei robot determinerà nei prossimi anni. Mentre da un lato ci saranno, ad esempio, sempre meno addetti a biglietterie, casse, sportelli, uffici amministrativi, call center eccetera, perché rimpiazzati da sistemi automatici, dall’altro, per svolgere tutte le professioni, a tutti i livelli e in tutti gli ambiti, ci sarà sempre più bisogno di soft skill come creatività, flessibilità, disponibilità a imparare, curiosità, resilienza, e via dicendo. Abilità che si ottimizzano anche studiando scienze umane.
Insomma, se i sistemi scolastici e universitari dei Paesi sviluppati non adegueranno al più presto l’offerta formativa con curricoli che favoriscano l’interdisciplinarità e la commistione di teorie e pratiche, lo scollamento con le richieste del mercato, che già oggi si rileva, sarà destinato ad aumentare. Perciò è ora di abbandonare, una volta per tutte, sia la scissione fra competenze umanistiche e tecnico-scientifiche (soft e hard skill), sia la sottovalutazione delle une a favore delle altre. Le professioni del futuro – no, già del presente – le vogliono entrambe.