Nel nostro longform domenicale il ricordo del prof che leggeva il futuro del lavoro e ne denunciava le contraddizioni. «Dal punto di vista tecnologico un’azienda può essere modernissima, ma come cultura arretratissima. Nel 2030 i giovani lavoreranno ovunque, io auguro a tutti di farlo dal mare»
«Il meno possibile». Per spiegare quella straordinaria visione del mondo del lavoro del professore Domenico De Masi possiamo partire da questa frase scellerata pronunciata anni addietro da uno dei top manager di Google. E soprattutto dalla risposta che ne dà il sociologo riprendendo queste parole. «Il meno possibile». Di fatto è quanto afferma nel 2013 l’ex capo delle finanze di Google Patrick Pichette, rispondendo alla stampa che chiedeva quanti dipendenti del colosso di Mountain View stessero in quel momento telelavorando. Ripeto, siamo temporalmente sette anni prima di quella inevitabile rivoluzione copernicana del lavoro spinta giocoforza dalla pandemia, ma stiamo parlando di uno dei principali colossi mondiali dell’hi-tech. In fondo soltanto poco tempo fa riunirsi in un posto era indice di produttività, innovazione, cameratismo e ovviamente controllo. Otto anni e una pandemia dopo le proporzioni sono completamente ribaltate, ha evidenziato l’Economist in un dossier che rivela tutte le contraddizioni del mondo del lavoro. «Con il boom dello smartworking il ritorno alla propria postazione si sta rivelando più complicato dell’uscita improvvisa», ha scritto la testata inglese. Contraddizioni di un tempo in evoluzione, con la strada per la digitalizzazione lastricata di buoni propositi, spesso però solo formali. Interrogato sulla quella improvvida dichiarazione durante uno dei nostri talk del SIOS21 a Giffoni, De Masi non usa mezzi termini, come suo stile. «Dal punto di vista tecnologico un’azienda può essere modernissima, ma come cultura del lavoro e come gestione delle risorse umane arretratissima. I capi del personale vogliono mantenere i dipendenti in azienda per controllarli in modo medievale, mentre con lo smartworking si lavora per obiettivi. Le aziende sono più pigre di quanto si possa pensare perché vivono mutamenti molto lenti».
Proprio in queste ore ci ha lasciati Domenico De Masi. Aveva 85 anni e fino a pochi giorni fa continuava a illuminarci su cosa – e soprattutto su come – affrontare questi anni connessi e complessi al lavoro e nella vita di tutti i giorni, prediligendo la pluralità di esperienza da vivere in quella che definiva la fase del “non lavoro”. Se ne è andato De Masi. E ci sentiamo già tutti più orfani di quella visione che precorreva i tempi, quell’eloquio gentile e deciso, quella capacità di fare sintesi per proiettarci nel futuro. «Nel 2030 lavoreremo molto di meno, ma vivremo molto di più. Il lavoro non è più un fatto centrale nella vita. Diventa centrale il “non lavoro”. Essere mamma, essere figlio, essere amico, essere cittadino. Nel 2030 il lavoro sarà un dodicesimo della nostra vita, ma già oggi possiamo produrre più beni e servizi con meno lavoro umano. Così perfino l’articolo 1 della nostra costituzione cambierà significato. Nel 2030 l’Italia sarà una repubblica democratica fondata su un dodicesimo della vita. Questo significa che dobbiamo cambiare completamente l’idea che abbiamo del lavoro», ha affermato più volte il professore, già teorizzatore di quell’ozio creativo riconosciuto come approccio illuminante in tutto il mondo, idea anche nei Paesi del sud-America, Brasile in testa, dove De Masi era acclamato come pensatore contemporaneo. Come ha ricordato anche Rainews, De Masi ha sviluppato e diffuso uno dei paradigmi post-industriali basato sull’idea che, a partire dalla metà del Novecento, l’insieme di azioni quali il progresso tecnologico, lo sviluppo organizzativo, la globalizzazione e la scolarizzazione di massa abbiano prodotto una nuova società incentrata sulla produzione di informazioni, servizi, simboli, valori, estetica. Questo processo ha determinato nuovi assetti economici, nuove forme di lavoro e di tempo libero, nuovi valori, nuovi soggetti sociali e nuove forme di convivenza.
De Masi ha sempre dialogato con i giovani. E i giovani gli hanno sempre riconosciuto quella capacità di cogliere le trasformazioni in atto. Oggi è evidente che quell’inafferrabile generazione Z che mette piede nel mondo del lavoro lo fa con una consapevolezza differente rispetto alle fasce anagrafiche più paludate del passato. Quell’idea tossica della vita votata per il lavoro si esplicita ora in una necessità di dare un senso al proprio percorso di vita basato su coerenza e impegno. Una ricerca di senso che oggi si consolida. Lo ha scritto anche Simon Sinek, uno dei massimi pensatori contemporanei sul lavoro, autore del bestseller tradotto in italiano col titolo “Partire dal perché”: oggi più che in passato la gente non compra ciò che fai, ma il perché lo fai, ha più scritto detto Sinek. Ecco allora che anche per De Masi la responsabilità sta nelle mani delle nuove generazioni, ma il dito è puntato sulle vecchie e sulla loro visione obsoleta, superata, addirittura medievale. «I vostri nonni, i vostri bisnonni, i vostri genitori tenteranno in tutti i modi di farvi capire che il lavoro è tutto nella vita e che tutto ciò che fate deve servire al lavoro. Questo è una grande fandonia. Quello che voi dovete fare deve servire alla vita, non al lavoro. Perché il lavoro è una parte minima della vita. Infatti la vita è una cosa complessa in cui si fanno un sacco di cose. Solo alcune di queste vengono retribuite e le chiamiamo lavoro. Ma questa parte si rattrappisce sempre di più. Il lavoro è una cosa importante ma non totalizzante». Così De Masi rivolto ai giovanissimi presenti a Giffoni. Era visionario De Masi, ma anche disincantato rispetto ai luoghi di lavoro, a quello che rappresentano per davvero, lontani da immagini idilliache che allontanano dalla concretezza e che fungono solo da facciata. «Altro che rapporti amicali, nei luoghi di lavoro spesso coesistono gruppi di vipere che si odiano a vicenda. Invece ciò che conta nel lavoro ibrido sono le relazioni perché in questo modo si moltiplicano quelle con i vicini di casa, con gli amici, con i familiari e con i parenti. Ecco, nello smartworking queste interazioni si moltiplicano esponenzialmente. Di fatto è come raddoppiare la vita affettiva legata al lavoro». In quella indimenticabile conversazione a Giffoni, come ultima domanda gli chiedo dove avrebbero lavorato i giovani tra dieci anni: in ufficio, all’estero o al mare. «Siamo alla vigilia di una grandissima rivoluzione. I giovani potranno lavorare ovunque, ma io auguro a tutti di lavorare al mare». Per descriversi il professore aveva scelto la rondine, viaggiatrice instancabile. Era quello il motto di Paul Valery. “Bisogna essere leggeri come una rondine, non come una piuma”. «La rondine è un uccello determinato, ma senza spocchia». Ciao professore. E buon viaggio.