Giorgio Zanchini, Direttore della kermesse che quest’anno vede la media partnership con StartupItalia, racconta la lunga e complessa transizione, in corso. La Rete può essere una straordinaria complice, ma la sfida è saper scegliere consapevolmente, con strumenti critici adeguati
Il giornalismo culturale, come tutte le forme di comunicazione novecentesche, è impegnato in una transizione complessa, sapendo che il passato non va cancellato, ma nemmeno lo si può portare in spalla in una processione di santa nostalgia. I gusti mutano, i linguaggi si corrompono e la tradizione può diventare un totem intoccabile, un avversario scomodo, peggio di Moby Dick, che spalanca rimpianti, indebolisce il futuro, accorcia la visione. Perciò il cambiamento va progettato esercitando l’arte dell’analisi, estraendo valore dall’esperienza. Ne abbiamo parlato con Giorgio Zanchini, Direttore del Festival del Giornalismo Culturale giunto alla decima edizione, che si terrà a Urbino (7-8-9 ottobre) e del quale StartupItalia è media partner.
“Dal Web alla Terza. La vita della cultura nel mare della rete” è il titolo di quest’anno per approfondire l’attuale relazione tra la rete e la Terza pagina – lo spazio storicamente dedicato dai quotidiani cartacei italiani alla cultura -, osservando una sorprendente longevità della carta stampata.
Zanchini, dopo dieci anni di Festival, cosa ci possiamo aspettare?
Dieci anni sono tanti e francamente non pensavamo di essere così longevi. Quando cominciammo a organizzare il Festival, la direzione imposta dalla rivoluzione digitale era già abbastanza chiara, ma il mondo dell’informazione culturale era molto legato agli schemi novecenteschi, alla centralità della carta stampata, assegnando alla rete una marginalità simbolica. Oggi la digitalizzazione si è dispiegata con tutta la sua forza, offrendo problemi e opportunità. La rete è diventata una componente fondamentale nelle modalità di fruizione dei consumi informativi e culturali.
Perché avete invertito il titolo della prima edizione del Festival?
Il primo Festival del Giornalismo Culturale si intitolava dalla Terza al web perché volevamo discutere dei grandi cambiamenti della rivoluzione digitale, che stavano iniziando a coinvolgere profondamente anche l’informazione culturale. In questo Festival, invece, discuteremo di tutto quello che è successo nell’ultimo decennio, dovendo fare i conti con una realtà ribaltata, profondamente mutata, specialmente per quel che riguarda l’universo giovanile e la comunicazione della cultura. Inoltre analizzeremo il riposizionamento e la longevità della carta stampata e riviste culturali.
“Dobbiamo partire da tre parole chiave: ibridazione, transmedialità e complementarietà.
Il giornalismo culturale deve rafforzarsi nel mercato dell’offerta dei contenuti di valore”
Come integrare il giornalismo culturale nel contesto comunicativo iperconnesso e orizzontale?
Dobbiamo partire da tre parole chiave, che saranno le nostre coordinate: ibridazione, transmedialità e complementarietà. Il giornalismo culturale deve esistere e rafforzare il suo ruolo nel mercato dell’offerta dei contenuti di valore, ma per farlo deve presidiare tutti i territori, cercare di allargare la community utilizzando la rete con creatività e competenza, conoscendone i linguaggi e le meccaniche. Per diventare complementari ai linguaggi e agli strumenti utilizzati dai pubblici, è necessario ideare progetti editoriali con diverse declinazioni, raggiungere tutte le audience, usare i canali disponibili secondo le loro specifiche peculiarità. Distribuire contenuti, oggi, è molto complesso, ma le potenzialità sono grandissime.
La verticalità della cultura e l’orizzontalità della rete sono compatibili?
Sì, ne sono convinto. La rete si è rivelata una straordinaria complice per la diffusione di informazioni culturali, ha consentito di far sentire la voce di chi era spesso escluso dai circuiti tradizionali e dalla cosiddetta società letteraria. Una sorta di democratizzazione nella circolazione delle informazioni, grazie alla quale le voci sono molte di più, rispetto al passato. Un panorama molto articolato, aperto e più tollerante nel quale, però, si è acuita la difficoltà di scegliere i contenuti più meritevoli.
Nota delle resistenze da parte degli addetti ai lavori?
Ho l’impressione che questo processo sia molto simile a quello che abbiamo visto inizialmente con la televisione. Il mondo tradizionale culturale italiano, cresciuto nel ‘900 utilizzando i libri e i giornali per la trasmissione dei saperi, inizialmente era molto diffidente nei riguardi della televisione, nonostante l’approccio pedagogico della Rai che deteneva il monopolio dell’informazione culturale. La rete, oggi, ha fatto cadere tutte le barriere ed è molto difficile trovare un intellettuale che non sia consapevole della potenza, indispensabile, di internet. Per fare sentire la nostra voce, conoscere le voci altrui e trovare informazioni di grande qualità, dobbiamo utilizzare la rete.
I social media, se privati della capacità critica, non consentono di informarsi adeguatamente.
La vera sfida è saper scegliere, consapevolmente.
Gli operatori dell’informazione culturale devono adottare massicciamente strumenti online?
Farei delle distinzioni, perché dipende da cosa vogliamo comunicare. Ad esempio, un accademico che scrive un approfondimento sulla rivista Il Mulino, magari rilanciato sul sito della casa editrice, potrebbe non avere esigenze di diffondere ulteriormente il suo contenuto; in questo caso il suo pubblico di riferimento è già stato raggiunto. Tuttavia, è interessante osservare le conseguenze e le ramificazioni che quel contenuto potrebbe provocare, indipendentemente dalla volontà del suo autore. Basta un tweet o un frammento pubblicato su Instagram, e quello stesso articolo prenderà una nuova vita, un rinnovato slancio nel web, genererà ulteriori post, commenti e interpretazioni.
C’è un adeguato livello di competenze digitali, nel mondo dell’informazione culturale?
Il tema è generazionale, le persone che non sono cresciute nell’ambiente digitale faticano ad assimilare profonde e trasversali competenze digitali, ma le giovani generazioni e la rete travolgono tutto, in un mondo dove non possiamo più aggrapparci alle vecchie abitudini. I giovani studiosi sono cresciuti nel mondo digitalizzato, lo abitano, lo utilizzano e di conseguenza possiamo sperare in una contaminazione virtuosa delle competenze, nelle redazioni e nelle case editrici.
La preoccupa la superficialità che spesso caratterizza la fruizione dei contenuti online?
La vera questione di fondo è l’utilizzo del tempo, che è una risorsa finita, e come si sceglie di impiegarlo. Abbiamo indicatori e report che confermano la tendenza degli italiani ad abbracciare tutte le novità, ma solo superficialmente, utilizzando gli strumenti della comunicazione digitale in modo molto orizzontale. I social media, l’iper connettività permanente, l’attenzione continuamente sollecitata dalle notifiche sugli smartphone, se privati della capacità critica e di strumenti culturali, non consentono di informarsi adeguatamente. In questo contesto così pieno di distrazioni, la vera sfida è saper scegliere, consapevolmente.